In occasione dell'inaugurazione della mostra
"Scienza e vergogna. L'Università di Torino e le leggi
razziali" organizzata dall'Università di Torino (16 novembre
2018 - 28 febbraio 2019) la Silvio Zamorani editore pubblica il libro
di Valeria Graffone "Espulsioni immediate. L'Università
di Torino e le leggi razziali, 1938"
L'applicazione delle leggi antiebraiche del 1938
avvenne in tutte le Università italiane, preceduta da un’accurata
preparazione a cui non si sottrassero rettori, presidi di facoltà,
impiegati ai vari livelli della struttura amministrativa e tecnica.
I documenti proposti al lettore in questo libro, nella loro cruda
esemplarità, mostrano meglio di qualsiasi ragionamento i tanti
aspetti di una pagina oscura nella storia dell’Università
di Torino. Mostrano la violenza, la protervia e l’assoluta irragionevolezza
delle misure che portarono nel 1938 all’espulsione degli ebrei
– docenti, studenti e personale tecnico-amministrativo –
dall’Ateneo torinese, come peraltro dall’insieme della
vita sociale; la dimensione della ferita allora inferta sull’insieme
della comunità accademica; la solerte obbedienza dell’istituzione
nelle sue diverse articolazioni; l’assenza di qualsiasi opposizione;
l’offesa alla dignità della cultura e la depravazione
dell’intelligenza di tanti uomini colti.
Valeria Graffone Espulsioni immediate.
L’Università di Torino e le leggi razziali, 1938.
Presentazione di Gianmaria Ajani Rettore dell'Università di
Torino - Prefazione di Fabio Levi
164 pp. con 75 illustrazioni - ISBN 9788871582375 - 24,00 Euro
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RECENSIONE DI GIULIANO CAPECELATRO
AL LIBRO DI FRANCESCA NOBILI SPADA
«Succedeoggi. Cultura nell'informazione quotidiana»,
29 agosto 2018
L’acquario
di Napoli
Finalmente viene pubblicato il romanzo di Francesca Spada sull'inquietudine
esistenziale napoletana degli anni Cinquanta. Quella di Caccioppoli
e dell'eresia ribelle e comunista
Una breve
stagione di incerte promesse si spense in un gesto, nella Napoli scalcinata
e dolente del dopoguerra. La pistola puntata alla testa, il dito che
non esita. Renato Caccioppoli, matematico di fama mondiale, iconoclasta
impenitente, anima tormentata, chiude la sua vita davanti alle foto
di Evariste Gaulois, matematico geniale ucciso ventunenne in duello,
e Arthur Rimbaud, enfant terrible morto alla poesia ancora adolescente.
«Un gesto sospeso tra la gelida necessità di un teorema
e un disperato urlo espressionista» (Liberazione, 6 aprile 2008;
si perdoni l’autocitazione). È l’8 maggio 1959.
Simbolica pietra
tombale sui fermenti, le speranze, le illusioni, i conati della meglio
gioventù napoletana, che nel matematico insigne aveva un faro:
qualcosa di nuovo, di potentemente creativo, liberatorio in quegli
anni sembrava potesse ancora germogliare nella città che si
sgretolava. Da cui si fuggiva perché fuggita era la speranza;
via, verso Milano, Roma. Echi di quel mondo in dissoluzione giungono
dal romanzo incompleto di Francesca Spada (che firma con l’aggiunta
del cognome anagrafico, Nobili, Nell’acquario dell’Angiporto
Galleria), rimasto sepolto tra carte di famiglia per oltre cinquant’anni
e ora pubblicato dall’editore torinese Zamorani. Ombre baluginano;
facile riconoscere Caccioppoli; si intuiscono le sagome di Guido Piegari
e Gerardo Marotta, anime dell’eretico gruppo Gramsci, e per
questo espulsi dal Pci (Partito comunista italiano), e il vituperato
Salvatore Cacciapuoti, occhiuto e autoritario dirigente comunista
cittadino. [ continua ]
La recensione
completa all'indirizzo:
http://www.succedeoggi.it/2018/08/francesca-spada-acquario-di-napoli/
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Articolo sul libro di Guido Fubini L'antisemitismo
dei poveri
Dialogo tra Manuel Disegni ed
Emilio Jona
In «Ha Keillah», luglio
2018 anno XLIII-214 Tamuz-Av 5778
Manuel
Disegni Ciao, Emilio, ho letto in questi giorni L'antisemitismo
dei poveri, il saggio scritto da Guido Fubini all'indomani dell'attentato
al tempio di Roma del 1982 e ripubblicato ora da Silvio Zamorani.
Ti va di chiacchierarne un po'?
Emilio
Jona Caro Manuel, discuto volentieri il libro di Guido
con te. Ci separano due generazioni e sarà divertente confrontare
le impressioni che ne abbiamo ricavato - e più in generale
le nostre esperienze dell'antisemitismo - alla luce della nostra
differenza d'età. [ continua
]
L'articolo
completo si può leggere all'indirizzo:
https://www.hakeillah.com/3_18_22.htm
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RECENSIONE DI SERGIO CASERTA
AL LIBRO DI FRANCESCA NOBILI SPADA "NELL'ACQUARIO DI ANGIPORTO
GALLERIA"
Leggere
Nell’acquario di Angiporto Galleria, il libro autobiografico
di Francesca Spada, curato dalla figlia Viola Lapiccirella, per l’editore
Zamorani, è stato ripercorrere un pezzo importante del mio
vissuto politico, dopo il primo romanzo che lo precede, “Mistero
napoletano” di Ermanno Rea che tratta lo stesso argomento, la
vicenda della giornalista de l’Unità, morta suicida,
nel contesto della Napoli del secondo dopoguerra e dei primi anni
sessanta.
È una storia personale e politica che ha appassionato schiere
di lettori, per l’intreccio intrigante tra le vicende umane
dei personaggi e il loro agire pubblico, come esponenti di un grande
partito, nella tormentata storia di Napoli comunista, le cui propaggini
giungono fino ai nostri giorni. Napoli protagonista di questa e di
mille altre storie umane, Napoli grandiosa e miserabile, colta e plebea,
Napoli piena zeppa di intellettualità aristocratica, Napoli
lazzara e violenta, prevaricatrice, mendicante, Napoli guappa e illuminista,
Napoli tutto e il suo contrario.
L’essenza di questa storia è nel rapporto di una generazione
di intellettuali comunisti, giornalisti e dirigenti del PCI, alle
prese con i tormenti delle proprie convinzioni e l’adesione
al partito, la sottomissione alla sua ferrea disciplina, alle logiche
degli apparati burocratici che macinavano vite e coscienze, in nome
del bene supremo dell’unità del Partito. [ continua
]
La recensione
completa all'indirizzo:
www.ilmanifestobologna.it/wp/2018/08/nellacquario-di-angiporto-galleria-e-mistero-napoletano-due-libri-per-una-storia-grande/
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RECENSIONE DI ENRICO DEAGLIO
AL LIBRO DI FRANCESCA NOBILI SPADA "NELL'ACQUARIO DI ANGIPORTO
GALLERIA"
«Venerdì di Repubblica»,
27 luglio 2018
FRANCESCA SPADA E IL SUO
ROMANZO NAPOLETANO
La sua storia è un doppio mistero. Francesca Spada, nata a
Tripoli nel 1916, residente a Napoli dal 1945, intellettuale militante
nel partito comunista, redattrice delle pagine culturali de «L’Unità»,
morta suicida con accanto una poesia di Rilke nella primavera del
1961, è la protagonista del romanzo «Mistero napoletano»
di Ermanno Rea, pubblicato, con grande successo, da Einaudi nel 1995.
Vi si narra di amori e disamori tragici che si svolgono intorno a
una militante affascinante, generosa e indipendente, che i vertici
del partito odiano profondamente, per un innato maschilismo e un acquisito
spirito ideologico-poliziesco. Sullo sfondo c’è la Napoli
dolorosissima del dopoguerra, con i suoi sogni e i suoi ideali, non
poi così distanti da quelli che animarono gli intellettuali
partenopei che nel 1799 furono passati per le anni dai Borboni; e
ci sono i protagonisti – i ribelli, gli idealisti – contrapposti
agli uomini di partito senz’anima, ma veri vincitori nella battaglia
politica. I loro nomi, peraltro, sono diventati molto famosi nella
storia d’Italia.
Il secondo mistero viene svelato nel 2013 dalla figlia di Francesca,
Viola Lapiccirella, che scopre, tra le carte di famiglia, una risma
di fogli, in parte manoscritti, in parte dattiloscritti. È
il romanzo che Francesca Spada stava scrivendo. Viola lo mostra immediatamente
a Rea. L’autore le comunica di aver fatto un tentativo di far
pubblicare la storia scritta dalla protagonista dai suo romanzo, ma
di prevedere tempi lunghi. Rea muo-re nel 2016. Il libro finalmente
esce la primavera scorsa dall’editore Zamorani, curato, annotato
e splendidamente illustrato (paesaggi napoletani onirici) dalla figlia
Viola, che gli ha trovato un titolo: “Nell’acquario di
Angiporto Galleria” (dalla sede della redazione napoletana dell’«Unità»).
È sicuramente solo un embrione di romanzo, mancano il primo
e l’ultimo capitolo, una buona metà è costituito
da scene sparse, bozzetti scritti a mano; ma il lettore rimane colpito
dalla dolorosa potenza delle scene. I protagonisti, tutti giovani
militanti comunisti con speranze, innamoramenti, discussioni, delusioni,
vedono e scrivono di una città impazzita per i postumi della
guerra, dove tutto — dalle donne che si buttano dalla finestra
alla notizia di una ennesima gravidanza a quelle che si uccidono con
la varechina, dai colossali processi istituiti per una rivolta contadina
con gli imputati analfabeti nelle gabbie che si fanno il segno della
croce ai lasciti devastanti delle alluvioni, dallo sgomento per la
morte di Stalin alla comparsa sulla scena politica della camorra,
«fatta di uomini primitivi» — è accompagnato
dalla consapevolezza che «cose più grandi di loro, nel
loro orrore, per la loro comprensione» stanno logorando gli
anni della loro prima giovinezza; stanno facendo morire gli idealisti
cercato la strada giusta nella «generosa speranza di poter rifare
un mondo migliore». E dunque, più per le “cose”,
più per “Napoli” che per l’ottusità
del Partito, alcuni partiranno, altri si uccideranno. Il romanzo incompiuto
di Francesca Spada lascia con due domande: allora è vero che
solo le donne, Eleonora Fonseca Pimentel, Anna Maria Ortese, Fabrizia
Ramondino, Elena Ferrante, possono scrivere di Napoli? E la seconda:
non sarà, per caso, che Francesca Spada è Elena Ferrante?
Enrico Deaglio
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RECENSIONE DI GIULIANO CAPECELATRO AL LIBRO DI FRANCESCA
NOBILI SPADA
«Leggendaria», n. 130, 10 luglio 2018
LETTURE
C'ERA UNA VOLTA L’ANGIPORTO
Sarebbe
riduttivo considerarlo un luogo, un mero dato topografico, spiazzo
angusto seminascosto dietro via Toledo da un’edicola, che probabilmente
sta lì da quando esistono i giornali. No, l’Angiporto
Galleria – oggi, per la toponomastica, piazzetta Matilde Serao
– è un topos cruciale della recente storia di Napoli;
quella che parte dal secondo dopoguerra, in una città materialmente
devastata dai bombardamenti, spolpata, avvilita e press ché
moralmente annichilita dal fascismo, dalle incursioni aeree e dalla
presenza degli alleati.
Un romanzo inedito, incompleto, riemerso quasi casualmente, riapre
quelle pagine tormentate, le investe di una luce nuova, per molti
aspetti rivelatrice. Nell’acquario
di Angiporto Galleria è il testo cui stava lavorando, quando
si uccise, Francesca Spada, assurta a fama come tragica protagonista
del romanzo-reportage di Ermanno Rea, Mistero napoletano.
Lo ha riesumato e curato la figlia, Viola Lapiccirella, autrice anche
delle belle illustrazioni, che nell’introduzione, come chiave
di lettura, evoca il dipinto Angelus Novus di Paul Klee e
l’inquietante interpretazione di Walter Benjamin, per cui la
catena di eventi etichettata come passato, verso cui indirizza lo
sguardo l’angelo, è solo catastrofe, una tempesta che
lo spinge irresistibilmente verso il futuro. Perché ciò
che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.
Non v’è forse epitaffio più calzante per quella
breve stagione dell’intellettualità napoletana, conclusa
con un’impressionante teoria di suicidi, con disperate fughe
(suicidi simbolici) dalla città – via, via: Milano, Roma
– di chi voleva sopravvivere e provare a dire, fare qualcosa,
dopo isolati, spesso sterili, aneliti generosi a mantenere viva una
speranza, un ideale palingenetico.
L’Angiporto era il cuore di questa vicenda. C’erano le
sedi dei giornali: «l’Unità», dove lavorava
Francesca Spada, «il Mattino», «Paese Sera».
Lì si incrociarono alcune delle migliori intelligenze ed energie
morali della città. Dal nume tutelare Renato Caccioppoli all’indomito
Gerardo Marotta, che fino all’ultimo giorno di vita avrebbe
continuato a combattere per non far naufragare l’Istituto per
gli studi filosofici, stimatissimo in campo internazionale, negletto
da istituzioni locali e nazionali; da Guido Piegari (la cui figura
sfuggente è stata riproposta da Rea) a Renzo Lapiccirella,
medico di mente sottile, arguta, chiamato a dirigere la pagina napoletana
del quotidiano comunista.
I personaggi che animano il romanzo di Francesca Spada (che da scrittrice
ritrova anche il suo cognome originario, Nobili) sono appena accennati,
fantasmi nascosti sotto anonimi nomi: Maria, Piero, Massimo, Laura,
Paolo, Marcella, Giovanni. Tutti immersi nell’acquario dell’Angiporto,
nel clima pesante e fervente di quei giorni.
Clima che il romanzo restituisce in pieno. Con un Partito comunista,
che incarnava l’aspirazione a una società più
giusta, ma era di fatto un apparato rigido, soffocante. Che non tollerava
deviazioni dalla linea indicata, tanto da additare Jean-Paul Sartre
come un nemico del popolo. E con dei giovani intellettuali insofferenti
dei dogmi stalinisti,
che si affidavano all’acume scettico di Caccioppoli, e si facevano
espellere per aver creato l’eretico gruppo Gramsci, che leggevano
l’inviso Sartre o Camus, in cui sentivano vibrare quel male
divivereche,anche nell’orizzonte agognato della futura umanità,
sperimentavano sulla propria pelle. Ma che dovevano concludere, come
scrive Francesca Nobili Spada, «Il Godot che in tanti a quell’epoca
aspettavamo non sarebbe arrivato più. E peggio che mai per
una donna».
Giuliano
Capecelatro
http://www.leggendaria.it/2018/07/
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È disponibile il libro:
Bruno Taricco
Il ghetto delle Cherche. Appunti per una
storia della comunità ebraica di Carmagnola
«La linea sinuosa, ma invisibile che unisce
Saluzzo-Carmagnola-Torino è più marcata di altre che
legano le relazioni umane, i rapporti commerciali, i reticoli famigliari,
fin dalle origini quattro-cinquecentesche. [...] Non un triangolo,
ma un segmento curvo unisce le tre comunità ebraiche di Saluzzo,
Carmagnola e Torino, che hanno avuto storie dissimili fra loro, ma
unite da questo filo vettoriale, che indica una direzione, un percorso
di migrazione: dalla periferia al centro».
(dalla Prefazione al volume di Alberto Cavaglion)
Con questo libro Bruno Taricco continua
la sua indagine sulla storia degli ebrei in Piemonte: dopo Cherasco
sono gli archivi di Carmagnola a ridare la trama della presenza ebraica
nella città, dai primi documenti che risalgono agli anni dell’ultimo
Medioevo (nel 1467 un atto notarile vi attesta la residenza di un
ebreo), all’ampliarsi a più famiglie nel Cinquecento
e nei secoli successivi. Alcuni capitoli percorrono la storia della
comunità: gli insediamenti nel XVI secolo, il Seicento, il
passaggio alla segregazione nel ghetto, la svolta della prima emancipazione
francese e la successiva entrata, dopo il 1848, a pieno titolo nella
vita del Regno, fino alla partecipazione alla guerra del 1915-18 e
al graduale esaurirsi della comunità a Carmagnola – con
le trasformazioni economiche e sociali da un lato e lo sprofondare
del Paese nelle leggi razziste del 1938, nella Seconda guerra mondiale,
nella deportazione degli ebrei e, dall’altro lato, la loro partecipazione
alla Resistenza. Parte essenziale del volume è il ricco apparato
documentario che sorregge sempre la descrizione delle attività,
strutture e dinamiche sociali della comunità e fornisce un’ampia
base di riferimento per approfondimenti e confronti.
L’Appendice, a cura di Ilaria Curletti, riporta il testo delle
visite all’Università ebraica dei vescovi nel 1702 e
nel 1746.
Bruno Taricco docente
di Italiano e Latino, da oltre trent’anni è conservatore
del museo Adriani di Cherasco e da qualche anno fa parte del consiglio
del CISIM (Centro internazionale per gli studi sugli insediamenti
medievali). Si interessa di storia locale e in questo settore ha pubblicato
alcuni libri relativi soprattutto alle vicende cheraschesi –
tra gli altri Cherasco Urbs firmissima pacis, Cherasco
medievale, Cherasco barocca, Guida di Cherasco,
Cronache cheraschesi del secondo periodo francese (1796-1815)
– e verdunesi (Documenti e appunti per una storia di Verduno)
oltre a numerosi saggi. Ha approfondito la storia plurisecolare dell’insediamento
ebraico nella città in cui risiede con il volume Gli ebrei
di Cherasco, pubblicato dalla Silvio Zamorani nel 2010.
15 x 21 cm - 536 pp. - 80 illustrazioni nel
testoISBN 9788871582269 - 42,00 Euro
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Recensione di Anna Segre al libro di Silvana Calvo
L’informazione rifiutata.
La Svizzera dal 1938 al 1945 di fronte al nazismo e alle notizie del
genocidio degli ebrei
In «Ha
Keillah»
Come può
un paese democratico mantenere la neutralità tra democrazie,
fascismo e nazismo? Come può offrire un’informazione
che appaia equilibrata per non suscitare le proteste di uno dei contendenti?
Come può adeguatamente mettere al corrente i suoi cittadini
del fatto che è in corso un genocidio se contemporaneamente
deve mantenere rapporti amichevoli con la potenza che lo sta perpetrando?
E se poi l’esigenza di mantenere rapporti amichevoli è
rafforzata dal timore più che concreto di un’invasione
e dalla volontà di non offrire pretesti con una presunta violazione
della neutralità? La risposta è semplice quanto triste:
non può. E infatti scopriamo con sconcerto che la Svizzera
nei primi anni della guerra aveva dovuto accettare fin troppi compromessi:
censure sui giornali, notiziari radio edulcorati, informazione ufficiale
filtrata. Tanto per fare un esempio, il giornale socialista ticinese
“Libera Stampa” subì 14 giorni di sospensione per
aver pubblicato l’11 luglio 1940 la notizia dal titolo Battaglia
navale nel Mediterraneo. Navi italiane colpite e in fuga, dando più
peso ai comunicati inglesi che a quelli italiani.
Silvana Calvo con un lavoro minuzioso e instancabile è riuscita
a ricostruire un quadro molto dettagliato della Svizzera di quegli
anni: istituzioni, partiti e movimenti politici, i giornali con i
rispettivi orientamenti ideologici, le agenzie di stampa, i cinegiornali,
i notiziari radiofonici; ci illustra inoltre le pressioni e i provvedimenti
punitivi che i giornali subivano se erano giudicati non neutrali e
gli escamotage utilizzati per far capire al proprio pubblico quali
informazioni erano da prendere sul serio e quali no senza incappare
nelle maglie della censura.
A questa prima parte più generale segue quella dedicata più
specificamente all’informazione sulla Shoah, che si inserisce
in questo quadro e contemporaneamente ne rappresenta l’elemento
più inquietante e paradossale. L’immagine di copertina,
la dichiarazione anglo - russo - americana sul genocidio degli ebrei
in corso pubblicata su Libera Stampa il 19 dicembre 1942, conferma
ciò che il titolo stesso del libro fa intuire: in Svizzera
durante la seconda guerra mondiale le notizie non mancavano affatto
per chi voleva informarsi. Eppure, pur abbondante su alcuni giornali
(primo tra tutti, appunto “Libera Stampa” a cui è
dedicata la terza parte del libro), scopriamo con sconcerto che l’informazione
sulla Shoah fu praticamente assente dai notiziari radiofonici dell’Agenzia
Telegrafica Svizzera: dal 1939 al 1945 solo 34 notizie riguardanti
in qualche modo la persecuzione degli ebrei, 23 delle quali provenienti
da fonti dell’Asse. E scopriamo anche con sgomento che nel corso
della seconda guerra mondiale la Croce Rossa svizzera inviò
sul fronte orientale sei missioni mediche (quattro in Russia e due
in Grecia) al seguito della Wermacht i cui membri, assoggettati come
ausiliari dell’esercito alle leggi penali e all’ordinamento
disciplinare dell’esercito tedesco, avevano l’obbligo
di curare solo i soldati tedeschi e il divieto assoluto di raccontare
ciò che avevano visto.
Oggi ci appare sconcertante che un paese democratico arrivi a tradire
i propri stessi principi in modo così clamoroso, ma bisogna
ricordare la situazione della Svizzera, soprattutto dopo che la Francia
era stata invasa: un piccolo paese completante circondato dalle forze
dell’Asse la cui vittoria appariva imminente; e naturalmente
non mancavano nel paese stesso coloro che simpatizzavano con il fascismo
e il nazismo. In questo quadro, in quella che potremmo definire l’ora
più buia, la Svizzera, pur divisa tra “resistenti”
e “accomodanti”, dimostrò una certa condiscendenza
verso il nazismo ma al contempo un attaccamento caparbio alla propria
sovranità e indipendenza. Tale orientamento si manifestò
in diversi modi, dal piano difensivo che prevedeva la creazione di
un “ridotto nazionale”, cioè l’arroccamento
in una zona più interna della Svizzera in caso di invasione
della parte esterna, alla costituzione della sezione “Esercito
e focolare” con lo scopo “di rinforzare l’ideale
patriottico, promuovere la volontà di difesa, rinsaldare i
legami tra il soldato e il paese, distrarre e sviluppare spiritualmente
i mobilizzati”; in una prima fase la sua azione fu rivolta alla
propaganda tra i soldati e in seguito tra i civili.
Sconcertante leggere dalle “linee direttive” di “Esercito
e Focolare” del 28 dicembre 1940: “Non si può negare
l’esistenza di un problema ebraico solo perché - fortunatamente
- non si è manifestato da noi con l’acutezza che possiamo
osservare altrove. Ma se vogliamo restare obiettivi, siamo costretti
a notare che l’ebreo è inassimilabile tant’è
che nei due millenni da che dura la sua dispersione, non è
mai riuscito a stabilirsi e integrarsi in nessun luogo. In passato
alcuni cantoni e comuni svizzeri avevano degli statuti speciali per
gli ebrei che per tutto il tempo della loro applicazione hanno assicurato
un regime di rispetto dei reciproci diritti e doveri e reso inesistenti
manifestazioni antisemite. Questi Statuti, scaturiti da un profondo
spirito cristiano, hanno garantito la pace tra le parti, e non una
confusione di sentimenti e ideologie foriera di ogni possibile eccesso”.
Naturalmente tali linee suscitarono proteste (nell’esercito
svizzero erano presenti anche ebrei) e fu poi pubblicata una rettifica.
Ma in seguito suscitarono proteste e censure anche le linee direttive
del 19 giugno 1943 contro l’antisemitismo.
Fortunatamente il quadro non è solo a tinte fosche: Silvana
Calvo ci offre anche ampie informazioni su tutti coloro che invece
si adoperarono per diffondere le informazioni sulla Shoah in corso
e per aiutare gli ebrei profughi: gruppi politici e religiosi, giornali
come appunto il già citato “Libera Stampa” e, naturalmente
gli stessi ebrei svizzeri o residenti in Svizzera. Un panorama variegato,
un insieme di voci che naturalmente tendono ad aumentare di intensità
man mano che la guerra procede e si profila la vittoria degli Alleati.
Un lavoro di ricerca talmente ampio che un libro, pur così
denso e corposo, non basta a dare conto diffusamente di tutto. Vale
la pena ricordare che alcuni temi specifici (per esempio le navi dei
profughi e i naufragi di cui si parla in questo numero) hanno trovato
e troveranno uno spazio più ampio sulle pagine di Ha Keillah
di cui Silvana Calvo è da molti anni una preziosa collaboratrice.
Anna Segre
http://www.hakeillah.com/2_18_16.htm
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Recensione di Daniela Manini al libro di Silvana Calvo
L’informazione rifiutata.
La Svizzera dal 1938 al 1945 di fronte al nazismo e alle notizie del
genocidio degli ebrei
3 giugno 2018
“L’informazione
negata”: quando la neutralità distrugge l’umanità
Neutralità.
È la parola chiave di questo libro, la parola che ha informato
tutte le scelte e gli indirizzi delle autorità svizzere durante
il Secondo conflitto mondiale e nel periodo che lo ha immediatamente
preceduto. Una neutralità che, se ha consentito alla Svizzera
di non essere direttamente coinvolta, ha anche comportato pesanti
responsabilità morali. Perché una domanda sorge spontanea:
si può essere neutrali di fronte all’iniquità
e all’orrore, o si diventa in qualche modo complici?
È il quesito inquietante che sgorga dalla lettura di questo
libro, frutto di una ricerca accuratissima, durata anni, con la consultazione
di migliaia di documenti. Un libro dalla stesura chiara, esauriente
in ogni aspetto, che consente al lettore di farsi un quadro completo
e circostanziato della situazione.
Silvana Calvo è partita da una ricorrente vulgata,
quella che dice che della Shoà durante la guerra la gente non
sapeva nulla, o quasi nulla… tutto si è scoperto dopo.
E allora ha voluto vedere a fondo che cosa veramente le fonti di informazione
svizzere dicessero e scrivessero in quegli anni, e, soprattutto, che
cosa nelle ‘alte sfere’ si sapesse, in rapporto a quanto
arrivava ai cittadini comuni.
L’autrice propone una accurata rassegna di tutti i mezzi di
informazione allora disponibili: bollettiniradiofonici, cinegiornali,
organi di stampa nazionali, locali, e confessionali. Tutti erano sottoposti
a ‘censura di guerra’ che imponeva assoluta equidistanza
tra le parti in conflitto e divieto di formulare critiche e commenti
sfavorevoli, soprattutto nei confronti della Germania e dell’Italia.
È evidente come verso le potenze dell’Asse ci fosse in
realtà un riguardo particolare: da un lato le pressioni tedesche
e le più o meno velate minacce erano un elemento oggettivamente
preoccupante, dall’altro non mancavano in Svizzera aperte simpatie
per il Nazismo e il Fascismo e, quantomeno nei primi anni di guerra,
la convinzione che proprio queste forze avrebbero prevalso. Era quindi
opportuno, in vista del futuro assetto dell’Europa, guadagnarsi
rispetto e favore.
I mezzi di comunicazione erano quindi soggetti a commissioni di controllo,
che, in caso di infrazione alle regole imposte, prevedevano richiami,
ammende, ed anche la sospensione delle pubblicazioni.
Alla fine i giornali si ridussero, per quanto riguardava le notizie
sul conflitto, a riportare parola per parola (e citando la fonte)
i testi inviati dall’Agenzia Telegrafica Svizzera che
li riceveva dall’estero, e che ne diffondeva direttamente una
selezione nei quattro bollettini radiofonici in tre lingue. Anche
in questo occorrevano speciali cautele: non dare più notizie
che provenissero da parte alleata, rispetto a quelle di parte tedesca,
non usare (nel caso della carta stampata) caratteri che dessero più
rilievo alle une piuttosto che alle altre, eliminare comunicazioni
che contenessero parole pregiudizievoli soprattutto per Germania e
Italia.
A questo proposito, nel libro si ricorda una controversia sorta per
la pubblicazione di un dispaccio alleato che parlava di ‘navi
italiane in fuga’ in occasione di uno scontro nel Mediterraneo,
espressione ritenuta lesiva nei riguardi dell’onorabilità
italiana.
In questo quadro si inserì, in modo per molti versi anomalo,
anche l’azione informativa di "Esercito e Focolare".
Si trattava di una iniziativa dell’Esercito finalizzata, in
un primo momento, a rafforzare la motivazione dei 400.000 mobilitati
attraverso iniziative di vario genere che promuovessero una immagine
positiva del paese, per il quale valesse la pena di sacrificarsi,
difendendo i valori su cui poggiava storicamente la Confederazione.
Si temeva infatti, nei primi anni di guerra, che la Svizzera potesse
subire un tentativo di invasione, per fronteggiare il quale erano
stati predisposti piani di difesa.
Constatando, tuttavia, che tra la popolazione si stava diffondendo
un atteggiamento disfattista, l’opinione, cioè, che essendo
la Germania incontenibile, tanto valeva adeguarsi alla prospettiva
di una Europa hitleriana e cedere, prima di esservi costretti con
la forza, "Esercito e Focolare" pensò di estendere
al sua azione anche al contesto civile. Senza un convinto sostegno
della popolazione, l’esercito, infatti, sarebbe stato irrimediabilmente
indebolito.
Negli ultimi mesi del 1941 ebbero così inizio i Corsi di Orientamento
della Popolazione, cui avrebbero partecipato cittadini scelti, di
provata fiducia, su indicazione delle autorità locali. La loro
partecipazione assumeva il carattere di prestazione militare. Questi
cittadini, a loro volta, avrebbero diffuso le idee attraverso contatti
personali.
Ai conferenzieri, opportunamente formati, che tenevano i corsi, erano
inviate regolarmente delle indicazioni dei temi da trattare, sotto
forma di Linee Direttive. Nonostante la resistenza che il progetto
trovò inizialmente presso le Autorità Federali, esso
ebbe tuttavia modo di affermarsi e realizzarsi per tutta la durata
della guerra, anche se non mancarono contrasti su alcune delle Linee
Direttive.
Proprio per i suoi scopi, questo tipo di informazione andava in evidente
controtendenza rispetto alla visione ‘sterilizzata‘ dei
media tradizionali. Si concentrava l’attenzione in particolare
sulla Germania, dalla cui martellante propaganda anche in territorio
svizzero era necessario difendersi: gli argomenti diffusi da stampa
e cinema tedeschi e le dicerie messe in circolazione da Berlino andavano
puntualmente rintuzzati e contraddetti, rivelando quale fosse la realtà
delle cose.
Trattandosi di informazione sotto la giurisdizione dell’Esercito,
che aveva perciò carattere privato, in questi interventi era
possibile sottrarsi largamente ai rigori della censura. Si venne così
definendo una situazione duale. Da un lato la rigidissima neutralità
ufficiale portata avanti dal Governo, dall’altro l’orientamento
e l’informazione ‘sotterranea’ gestita dall’esercito.
Tornando ai media tradizionali, se in merito agli andamenti delle
operazioni militari bisognava essere cautissimi, rispetto alle specifiche
informazioni sulla persecuzione degli ebrei, scendeva addirittura
un silenzio pesante, soprattutto nei bollettini radiofonici, che rappresentavano
la fondamentale fonte di informazione quotidiana che raggiungeva praticamente
tutti gli Svizzeri. È significativo come dalla consultazione
delle 30.000 cartelle che costituiscono la raccolta completa dei comunicati
radio dal 1939 al 1944, emergano solo una trentina di notizie riguardanti
il tema, spesso ridotte a poche parole.
Come sottolinea l’autrice, in ossequio alla più rigorosa
neutralità era vitale che le parti in guerra venissero presentate
come moralmente equivalenti e ugualmente degne di rispetto».
Per questo, per evitare cioè che le notizie delle uccisioni
in massa degli ebrei mettessero a rischio tale precario equilibrio,
non trovò spazio nei notiziari neppure il Comunicato Congiunto
Interalleato del dicembre 1942 che parlava apertamente della
politica di sterminio messa in atto dai Nazisti in ossequio ai propositi
più volte enunciati da Hitler, e descriveva una Polonia trasformata
in ‘mattatoio’.
Le informazioni, anche circostanziate, di cui disponevano le Autorità
Federali, provenienti da fonti alleate e da associazioni ebraiche
presenti in territorio svizzero, non dovevano arrivare ai cittadini,
anche per paura che potessero essere fonte di disordini sociali, di
aspre contrapposizioni tra chi era sinceramente antifascista e chi
coltivava, oltre che simpatie per l’Asse, anche un vigoroso
antisemitismo.
La pace sociale era bene primario, e doveva essere salvaguardata ad
ogni costo, evitando ogni informazione che potesse essere divisiva.
Inoltre, tenendo la popolazione all’oscuro di quanto stesse
avvenendo agli ebrei, era anche possibile giustificare la politica
di limitazione degli ingressi e di respingimento nei confronti dei
profughi che premevano a tutte le frontiere della Confederazione,
e bollare come esagerazioni non confermate le voci di persecuzioni
e massacri che comunque giravano.
Una pagina non proprio nobile fu anche scritta, in quegli anni, dalla
Croce Rossa il cui Comitato Internazionale aveva da sempre sede a
Ginevra ed era composto da cittadini svizzeri. Come ricorda Silvana
Calvo, «poiché la Croce Rossa, rappresentava agli occhi
del mondo l’istanza suprema in grado di difendere le vittime,
tutti colori che sapevano qualcosa del dramma che si stava consumando
sotto il Nazismo, trovavano naturale informare il CICR». La
Croce Rossa, dunque, ben sapeva che cosa stesse accadendo.
Ma anche qui prevalsero le prudenze e la determinazione a rifuggire
da qualsivoglia implicazione nel problema del genocidio degli ebrei.
Forti delle convenzioni internazionali, che prevedevano da parte della
CR la tutela dei soli prigionieri militari e civili detenuti in paese
nemico, i prigionieri interni, per motivi razziali e politici, erano
considerati un problema esclusivo dei singoli stati.
Nulla perciò, neppure i tragici rapporti di membri della stessa
CR, o delle rappresentanze nazionali, smosse il Comitato dalle proprie
posizioni di estremo riserbo e di rifiuto di ogni qualsivoglia intervento,
che non fosse l’invio di pacchi-viveri.
Addirittura, quando nel ’42 il palpabile disagio di vari membri
del Comitato fece nascere l’idea di un appello per il rispetto
dei diritti umani da sottoporre ai belligeranti, benché questo
fosse redatto in termini estremamente blandi e generici, ad esso non
fu dato corso, anche per le pressioni del Governo Federale. L’implicita
allusione alla situazione degli ebrei avrebbe potuto infatti irritare
la Germania, e risultare perciò in contrasto con gli indirizzi
di neutralità adottati dalla Svizzera.
Allorché, più avanti, alcune missioni mediche della
CR svizzera, inviate sul fronte russo e di fatto controllate dai tedeschi,
si apprestavano a rientrare, dopo aver assistito a inenarrabili atrocità,
i sanitari dovettero impegnarsi a serbare silenzio assoluto sulla
loro esperienza. Venivano al contempo diramate disposizioni preventive
di censura a tutti gli organi di informazione, affinché nulla
potesse in alcun modo trapelare.
A differenza dei bollettini radiofonici, alcuni giornali riuscirono
però a diffondere alcune informazioni aggiornate sulla persecuzione
degli ebrei, sfidando la censura e accettando il rischio di essere
colpiti da sanzioni. Molto dipendeva, na-turalmente, dall’orientamento
delle testate. In questo si distinsero fogli liberali e socialisti,
come il ticinese «Libera stam-pa», o periodici
confessionali, espressioni della Comunità ebraica e delle Chiese
cristiane. La loro diffusione era però limitata, e raggiungeva
un pubblico naturalmente selezionato. Sapeva, insomma, solo chi voleva
sapere.
Nell’archivio di Benjamin Sagalowitz, direttore dal 1938 e per
tutta la durata della guerra della agenzia di stampa ebraica JUNA,
sono conservati 800 ritagli di giornale, che rappresentano tutto ciò
che in Svizzera fu pubblicato nei riguardi della Shoà.
Accanto ad articoli che presentano le misure adottate dai tedeschi
e la sorte delle loro vittime, non mancano però anche scritti
che danno sfogo a un violento antisemitismo, che individua nelle attitudini
e nei comportamenti degli ebrei la mo-tivazione della ostilità
nei loro confronti, li addita come elemento causale della guerra in
corso, fiancheggiatori del bolscevismo, nemici attivi della Chiesa.
Curiosamente, come nota l’autrice, questi articoli si fecero
particolarmente virulenti proprio quando, allentatasi la censura nel
corso del ’44 (fu abolita nel 1945), sorse da più parti
un’ondata di solidarietà nei confronti degli ebrei. Proprio
questo, evidentemente, si voleva contrastare, anche per opporsi a
una più aperta politica di accoglienza.
Il venir meno del potere della censura quando ormai la disfatta della
Germania si delineava, consentì a molti giornali di esprimersi
finalmente in modo aperto sulla tragedia della Shoà, e di formulare
pensieri critici non solo sul popolo tedesco, che aveva consentito
e favorito un simile obbrobrio, ma anche sul colpevole silenzio del
mondo.
Scriveva Das Volk nel luglio del 1944: «Ora che si
sollevano i veli che una troppo paurosa censura non può più
imporre, il mondo scoprirà cosa sono capaci di fare uomini
non più legati al diritto. Capirà che i fatti di oggi
non sono l’inizio, ma la logica fine di uno sviluppo di fronte
al quale ha taciuto fino a quando è stato troppo tardi…
L’élite spirituale d’Europa, salvo qualche lodevole
eccezione, ha preferito agire timidamente quando invece era necessario
alzare decisamente e prepotentemente la voce».
Nel maggio del 1945 il National Zeitung punta direttamente
la sua attenzione sulle responsabilità della Svizzera. «
In quanti hanno percorso il nostro paese spiegandoci quanto bene stava
facendo il Nazionalsocialismo, mentre l’infor-mazione sulla
sua vera natura e sulle sofferenze da esso provocate era contrastata
e definita propaganda e istigazione»?
I giornalisti trovarono allora anche modo di esprimere il proprio
personale disagio per essere stati costretti al silenzio e la propria
vergogna per averlo consentito.
«Sin dall’inizio della guerra, è sempre stato insopportabile
il fatto che si sapesse, da buone e fidate fonti, che l’orrore
che si celava dietro l’espressione ‘soluzione finale del
problema ebraico in Europa’ significava lo sterminio sistematico
di milioni di ebrei, ...ma questi rapporti sono stati proibiti dalla
censura mediante un termine inventato per l’occasione, ‘favolette
dell’orrore’, e la loro diffusione è stata severamente
punita… Siamo sembrati tutti consenzienti, persino una istituzione
come la Croce Rossa Internazionale, che non voleva mettere in pericolo
le sue relazioni con certi governi responsabili. Se con ciò
è stato davvero evitato un male maggiore, non si sa. L’ottusa
inerzia verso questi avvenimenti è sembrata una agonia morale»
(Thurgauer Arbeiter Zeitung, 8 luglio 1944).
E aggiunge il Landschaftler in quegli stessi giorni: «Chi
tace, pur possedendo una voce in grado di farsi ascoltare, mette in
pericolo il futuro della convivenza umana e il futuro della civiltà.
Ci troviamo al limite estremo della neutralità».
Daniela
Manini
https://www.glistatigenerali.com/geopolitica_storia-cultura/linformazione-negata-quando-la-neutralita-distrugge-lumanita/
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NOVITÀ
Guido Fubini L’antisemitismo
dei poveri
Guido Fubini (1924-2010) ha sviluppato in questo
libro una serie di considerazioni sull’antisemitismo. Il ragionamento
va diritto al cuore dei problemi, organizzandosi intorno a tre questioni
princi-pali. Al primo posto viene Israele o, più esattamente,
la forte pre-occupazione per il "rifiuto di Israele" indicato
come forma spe-cifica di una più generale ostilità
contro gli ebrei. Il secondo centro di attenzione è dato
dall'antisemitismo di sinistra. Il terzo è co-stituito dalla
politica antiebraica del fascismo italiano avviata nel 1938. A partire
dai tre nodi appena indicati il discorso si apre in molte direzioni,
illuminando le varie facce dell'antisemitismo con-temporaneo: dagli
Stati Uniti all'Europa, al contesto arabo-islami-co, allo stesso
mondo ebraico e a quello israeliano. Animato da un indiscutibile
coraggio intellettuale e segnato dall'intreccio fra un vigoroso
slancio ideale e un costante disincanto realista, Fubini si adopera
a contrastare l'illusione che le classi diseredate siano ne-cessariamente
portatrici di istanze progressive, quando viceversa possono spesso
essere proprio i più deboli, i "poveri", la forza
trainante dell'antisemitismo.
Corredano il volume la Presentazione di Fabio Levi, la
Prefazione di Alberto Cavaglion e una Nota di
Marco Brunazzi.
112 pp., ISBN 9788871582290,
18 Euro
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NOVITÀ
Marta Nicolo Un impegno
controcorrente. Umberto Terracini e gli ebrei, 1945-1983
Il libro ha per tema l’attenzione per il mondo
ebraico nella vita e nell’opera di Umberto Terracini. Nel secondo
dopoguerra il suo impegno al riguardo si espresse in tre campi principali:
la società italiana, che faceva ben poco per reintegrare le
vittime delle leggi antiebraiche del 1938 e delle deportazioni; il
il Me-dio Oriente, dove il nuovo Stato di Israele e le speranze che
incarnava furono oggetto di un rifiuto via via sempre più ra-dicale;
infine la situazione in Unione Sovietica, nella quale l’an-tisemitismo
diventò un fatto di prima grandezza. Terracini seguì
tutto questo con cura e consapevolezza, facendone oggetto di riflessioni
pubbliche e di azioni coraggiose. Ma soprattutto, ol-tre ad intervenire
in Parlamento, sulla stampa e ovunque gli fosse possibile, non esitò
mai, su tutti e tre i fronti nei quali si sentiva impegnato, a mettersi
in gioco personalmente, per es-sere più efficace e per non
perdere mai il rapporto diretto con i propri interlocutori. Marta
Nicolo documenta e analizza pun-tualmente tutte queste attività
restituendoci nel volume il ritratto di un intellettuale e uomo politico
italiano di cui risultano l’origi-nalità di pensiero
e la coerenza nell’azione concreta.
184 pp., ISBN 9788871582344, 24,00 Euro
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Recensioni al libro:
Francesca Nobili Spada Nell’acquario
di Angiporto Galleria
Questo romanzo
esce ora, dopo il ritrovamento del dattiloscritto ritenuto perduto,
a quasi sessant’anni da quando fu scritto. Ne è autrice
Francesca Nobili Spada (1916-1961), giornalista, musicista, scrittrice,
la quale visse intensamente la stagione del secondo dopoguerra a
Napoli. Impegnata in quegli anni in una convinta militanza comunista,
si trovò spesso in conflitto con le contraddizioni di un
partito rivoluzionario nei principî ma non di rado conservatore
nei suoi equilibri gerarchici e nei suoi “codici morali”.
Attiva nel 1946 per il “Comitato per la salvezza dei bambini
di Napoli”, in prima fila nelle organizzazioni femminili,
fu insegnante di filosofia, poi critica musicale e cronista nella
redazione dell’Unità (che si trovava in quell'Angiporto
Galleria, divenuto naturale punto di incontro di tanti – giornalisti,
militanti e dirigenti, intellettuali – che animavano la vità
politica e culturale della città negli anni della Guerra
fredda). Francesca Spada frequentava i gruppi intellettuali più
avanzati e originali della città e fra il 1957 e il 1961
scrisse questo libro: romanzo di formazione collettiva di un gruppo
di giovani militanti, – “ci siete tutti dentro”
avrebbe detto ai compagni, – ripresi nel fluire dei loro anni
migliori tra impegno, ambizioni e passioni, slanci e disillusioni.
Un testo apparentemente tradizionale nella forma per la scrittura
quasi cinematografica, percorso al suo interno da rotture narrative,
a volte frammentario negli intrecci delle vicende dei protagonisti.
Leggendolo si è subito immersi nelle giornate di Maria e
Paolo, Piero e Giovanni, Massimo, Laura e Marcella, personaggi di
quella Napoli che, secondo Anna Maria Ortese, “il mare non
bagnava più”. Quei giovani, logorati dalla loro stessa
troppo intensa passione, spendono le loro vite nella generosa speranza
di poter rifare un mondo migliore.
«A
un certo punto del racconto il personaggio di Laura, il più
somigliante a Francesca Spada, ricorda le "parole dello statuto
del partito, stampate sul retro delle tessere: “vita privata
onesta, esemplare”. Quattro parole che costruirono intorno
a lei, comunista irregolare guardata con sospetto dai compagni per
il suo spirito libero oltre che per il suo primo matrimonio con
un fascista, la gabbia di pregiudizi e diffidenze arrivata a farla
sentire sempre più anomala e sola, fino alla scelta del suicidio.
Perché la sua vita privata – e interiore – non
risultava conforme ai dettami prescritti da un partito dominato
da quella che Ermanno Rea definì “l’ossessione
maschilista del comunismo napoletano”. [...] Ora, con Nell’acquario
di Angiporto Galleria arriva quella che si può considerare
un po’ la vendetta postuma di Francesca. Si fa strada intessendo
i fili delle vite dei giovani uomini e delle giovani donne che nel
dopoguerra animavano la redazione napoletana dell’«Unità»,
il mitico quarto piano frequentato tra gli altri da Annamaria Ortese,
Raffaele La Capria, Giorgio Napolitano, Gerardo Marotta e posto
da Ermanno Rea al centro di Mistero napoletano. [...].
Ma la storia, più permeata dal valore della testimonianza
che della prova letteraria, fa affiorare soprattutto quel privato
così fermamente irreggimentato dal partito: i pettegolezzi,
i tradimenti compiuti o solo sognati, le coppie tenute insieme dalla
disciplina di partito, i matrimoni combinati dai funzionari, la
deplorazione per unioni come quella di Francesca e Renzo Lapiccirella,
considerate non consone al modello di rigore comunista perseguito.»
Titti Marrone, «Il Mattino» 11 aprile 2018
«Francesca
si tolse la vita il 31 marzo del 1961. Tre giorni prima, il 28 marzo,
aveva finito di scrivere il romanzo. Ritrovato nel dicembre del
2013 dalla figlia Viola Lapiccirella, adesso il testo di Francesca
ha finito di essere un dattiloscritto perduto. E sul "mistero
napoletano" della sua vita, sulla ferita aperta della morte,
su cui indagò Rea, si fa ancora un po’ di luce. [...]
Il titolo, Nell’acquario di Angiporto Galleria, riassume bene
e simbolizza la storia autobiografica che Francesca Nobili Spada,
nata nel 1916, cominciò a scrivere nel 1957. Lì, in
quel classico luogo della città di Napoli, c’era infatti
la sede de "l’Unità"; e lì convogliarono,
tra incontri e scontri, speranze e disincanti, amori e disamori,
un gruppo di giovani intellettuali e militanti comunisti nel tempo
della guerra fredda. Giovani come Francesca, come il marito Renzo,
come Rea, Gerardo Marotta, Guido Piegari; uomini e donne, insomma,
che volevano generosamente cambiare il mondo, ma che furono spesso
costretti dai casi della vita, e soprattutto dai burocrati del Pci
stalinista, a sacrificare i sogni alla ragione di Stato del Partito
e di Mosca. Furono sacrifici che ebbero qualche tragico epilogo:
la morte di Francesca, quella del matematico Renato Caciopppoli,
che si uccise nel 1959. Nel romanzo, la Nobili Spada raccontò
se stessa, gli amici e i nemici, tutta gente vera, reale, comunque,
e riconoscibile: dagli eretici come loro a Giorgo Amendola, Giorgio
Napolitano, Salvatore Cacciapuoti, Maurizio Valenzi. Lo fece però
"dopo avere mescolato i frammenti", come aveva detto a
Rea, di se stessa e degli altri.» Massimo Novelli, «Il
Mattino» 11 aprile 2018
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È disponibile il
libro
Martina Mengoni
Variazioni Rumkowski: Primo Levi e la
zona grigia
15 x 21 cm - pp. 64 - ISBN 9788871582320 - 10,00 Euro
Fu una moneta in alluminio – riprodotta in copertina di questo
volume – a mettere Primo Levi sulle piste di Chaim Rumkowski,
autocrate del ghetto di Lódz sotto l’occupazione nazista.
Nella sua ricostruzione, la parabola di questo ambiguo e paradossale
«re dei Giudei» divenne l’emblema stesso della
«zona grigia»: del territorio, paradossale e ambiguo
a sua volta, che separa le vittime dai loro aguzzini. È il
territorio alla cui scoperta ed esplorazione Levi dedica il capitolo
più importante del suo ultimo libro, I sommersi e i salvati.
Mettendosi a sua volta sulle piste di Rumkowski e della zona grigia,
Martina Mengoni ha dato forma a un saggio critico che in breve tempo
si è rivelato imprescindibile per gli studi su Levi. Apparso
originariamente online nel sito del Centro internazionale di studi
Primo Levi di Torino, Variazioni Rumkowski si è
imposto all’attenzione per la mole sorprendente delle scoperte
fattuali, per la finissima quanto rigorosa interpretazione dei testi
e dei contesti, infine per la sua scrittura asciutta, chiara e veloce.
Variazioni Rumkowski è un titolo musicale che per
la sua precisione e ironia avrebbe potuto piacere allo stesso Primo
Levi. Riproporlo in forma cartacea significa assicurare un’ulteriore
via di circolazione – una nuova pista da percorrere –
a uno studio tra i più illuminanti e felici degli ultimi
anni.
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Marco Francesco Dolermo
Alla fiera di Tantah. Il sionista che
amava l’islam: Raffaele
Ottolenghi (1860-1917)
Prefazione di Alberto Cavaglion
Il volume è dedicato alla figura di Raffaele
Ottolenghi, intellettuale ebreo nato nella seconda metà del
XIX secolo e morto nel 1917 all’età di cinquantasette
anni. Appartenente a un’importante famiglia di Acqui Terme,
figlio del rabbino Bonajut – che si era salvato a stento dall’assalto
al ghetto della città del 23 e 24 aprile 1848 –,avvocato,
intraprese la carriera diplomatica; fu filantropo, militante politico,
studioso della cultura e della religione orientale. Aderì al
Partito Socialista, di cui divenne attivo esponente, collaborando
a riviste e giornali tra cui «Critica Sociale» e «l’Avanti!».
In seguito al suo soggiorno al Cairo acquisì una profonda conoscenzare
dei problemi africani ed asiatici; unì agli interessi politico-storici
quelli filososofici e religiosi che trattò in molti scritti,
tra i quali l’opera più importante: i tre volumi di Voci
d’Oriente. Collaborò a molte riviste culturali, da «Coenobium»
al «Vessillo israelitico», a «Israel», alla
«Nuova Antologia di Lettere, Scienze ed Arti», «Bilychnis»
e molte altre. Sviluppò una riflessione personale in una forma
di sionismo spirituale e, avverso ai simboli e al linguaggio del potere,
critico nei confronti del progetto statuale in Palestina di Theodor
Herzl, ritenne che l’esistenza di Israele non potesse essere
disgiunta dalla presenza mussulmana che da secoli intrecciava la propria
cultura con quella ebraica.
Nel libro di Marco Dolermo, che riporta un’analisi molto ampia
della vita e delle opere di Ottolenghi – con i suoi scambi con
importanti studiosi: in modo particolare Paolo Orano, con cui ebbe
una lunga polemica culturale –, sono ripubblicati alcuni scritti
significativi di difficile reperibilità, assieme a un’ampia
collazione delle sue pubblicazioni.
15 x 21 cm - 271 pp. - 9 illustrazioni nel
testo - ISBN 9788871582214 - 32,00 Euro
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È disponibile il
nuovo libro di Silvana Calvo:
L’informazione rifiutata
La Svizzera dal 1938 al 1945 di fronte al nazismo
e alle notizie del genocidio degli ebrei
15 x 21 cm - pp. 359 - 28 illustrazioni nel testo. ISBN
9788871582221 - 38,00 Euro
Nell'estate del 1942 su molti giornali
svizzeri si poteva leggere che il numero degli ebrei uccisi dai nazisti
fino a quel momento aveva raggiunto il milione. La Dichiarazione
congiunta anglo-russo-americana, apparsa in dicembre, parlava
ormai chiaramente di sterminio e accusava i tedeschi di aver trasformato
la Polonia in un mattatoio. A partire dal 1943 i dispacci d’agenzia
scrivevano di 2 milioni, 3 milioni, 4 milioni, fino a 5 milioni di
ebrei uccisi. Non solo lo sterminio, ma anche le notizie sulla deportazioni,
sui ghetti, sulle esecuzioni per rappresaglia, insomma su ogni aspetto
del dramma che si stava consumando a non grande distanza, riuscivano
a raggiungere la Svizzera, grazie anche alla sua posizione di paese
neutrale.
L’informazione sul genocidio non fu uniforme: il notiziario
radiofonico, il cinegiornale, la stampa e l’esercito la gestirono
in modo differente e articolato; chi con intransigente reticenza,
chi facendo filtrare il massimo possibile di notizie nonostante le
continue raccomandazioni del governo e le imposizioni della censura.
Questo, tra l’altro, in un quadro in continuo mutamento a seconda
di come evolveva il conflitto e dei rapporti di forza tra i diversi
schieramenti nella Confederazione, ossia tra chi pensava che si dovesse
scendere a patti con i tedeschi e chi invece metteva al primo posto
la difesa della sovranità nazionale.
Le notizie sullo sterminio degli ebrei circolavano dunque ampiamente
e in tempo reale, grazie anche a personalità ebraiche come
Benjamin Sagalowitz e Gerhart Riegner, a un pastore evangelico come
Paul Vogt o a un giornalista socialista come Otto Pünter. Malgrado
la censura, giornali quali ad esempio «Libera Stampa»
di Lugano riuscivano non solo a dare un’informazione puntuale,
ma anche a presentare i fatti in modo da contrastare efficacemente
la diffusa tendenza dei lettori a non voler vedere quanto pure avevano
sotto i loro occhi.
Silvana Calvo si occupa di razzismo
e antisemitismo nel Novecento e in particolare di Shoah, della situazione
degli ebrei in Svizzera e di stampa ed antisemitismo; ha pubblicato:
1938 Anno infame, Antisemitismo e profughi nella stampa ticinese,
Bologna, 2005; A un passo dalla salvezza. La politica svizzera
di respingimento degli ebrei durante le persecuzioni 1933-1945,
Torino 2010, con cui ha vinto il Premio Internazionale Vittorio Foa
2014 della Città di Formia.
Illustrazioni:
In alto una riproduzione del cosiddetto Telegramma
Riegner dell'8 agosto 1942, ritrasmesso più tardi da Sidney
Silverman da Liverpool a Stephen Wise a New York, con il testo "ricevuto
tramite foreign office seguente messaggio da riegner ginevra stop
ricevuto rapporto allarmante in quartiere generale führer discusso
e valutato piano tutti ebrei paesi occupati o controllati germania
numero 3-½ a 4 milioni dovrebbero dopo deportazione e concentramento
in est in sol colpo sterminati per risolvere definitivamente questione
ebraica in europa stop azione riferita pianificata per autunno metodi
in discussione comprendono acido prussico stop". Foto AfZ Zurigo.
Sulla destra è riprodotto l’articolo
comparso il 19 dicembre 1942 su «Libera Stampa», quotidiano
socialista del Canton Ticino, in cui veniva riportato il testo della
Dichiarazione comune anglo-russo-americana sulla persecuzione
degli ebrei in Europa, resa pubblica contemporaneamente a Washington,
Londra e Mosca il 17 dicembre 1942.
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Catalogo della mostra a cura
di Lucetta Levi Momigliano, Lia Montel Tagliacozzo, Avi Reich
Giorgio Olivetti
I giorni,
le opere, la Sinagoga sotterranea di Torino
Contributi di Elena Dellapiana - Lucetta Levi Momigliano
- Avi Reich
Il volume è il catalogo della mostra allestita per ricordare,
ad un anno dalla scomparsa, avvenuta il 21 novembre 2016, Giorgio
Olivetti, ingegnere e architetto, al quale si deve la realizzazione
del Tempietto sottostante la Sinagoga della Comunità Ebraica
di Torino, ed anche l’affidamento di importanti documenti,
disegni, progetti, fotografie, preziose testimonianze, non soltanto
relative a Giorgio, ma anche al padre, l’ingegnere Guglielmo
Olivetti, all’Archivio Ebraico Benvenuto e Alessandro Terracini
di Torino.
Il Tempietto che illustra la copertina del libro rappresenta quindi
il luogo privilegiato per illustrare la vita e le opere di Giorgio,
nato nel 1929 a Torino da una famiglia borghese, perfettamente integrata
all’interno dell’intellettualità più significativa
della nostra città dopo i drammatici eventi bellici.
L’ampio apparato iconografico mette in evidenza, attraverso
dipinti, disegni, fotografie, la formazione, non solo scolastica
e universitaria, ma anche intellettuale di Giorgio Olivetti, partecipe
del dibattito che animava alcuni gruppi di giovani architetti, artisti
ed intellettuali della Torino dei primi anni Sessanta, così
come i saggi in catalogo ne hanno tracciato le vicende biografiche.
Una parte importante dell’esposizione è stata dedicata
ai disegni preparatori per il Tempietto ed il Centro Sociale, e
ai diversi progetti per altre committenze pubbliche e private, progetti
tutti rigorosamente restituiti dalle immagini fotografiche del catalogo.
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Franco Segre
Questa Legge non è in cielo.
Una selezione di schede dalle lezioni
del Corso di avvicinamento alla
cultura ebraica
pp. 551, 36 illustrazioni nel testo,tavole
riassuntive. ISBN 9788871582283. 30,00 Euro
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Recensione di Giorgio Fabre
alla nuova edizione ampliata del
libro di Michele Sarfatti Mussolini contro gli ebrei
La lunga
rincorsa di Mussolini antisemita
Storia contemporanea. Nell’edizione ampliata del suo «Mussolini
contro gli ebrei», da Zamorani, Michele Sarfatti presenta diversi
nuovi «episodi». Già prima del ’38 però...
Giorgio Fabre
Da: «Il Manifesto» Edizione
del 08.10.2017
Nel maggio 1994 Michele Sarfatti
pubblicava da Zamorani, editore specializzato in storia della persecuzione
antiebraica, la prima edizione di Mussolini contro gli ebrei. Renzo
De Felice era già malato, ma ancora attivo e dirigeva la sua
rivista, «Storia contemporanea». E molto incisivo era
lo stuolo dei suoi allievi, esponenti dell’establishment accademico
e collaboratori di vari giornali. Mussolini contro gli ebrei metteva
profondamente in crisi, soprattutto grazie alla precisione e all’incontestabilità
della documentazione, le tesi dello storico del fascismo, in particolare
la sua Storia degli ebrei. Era una svolta in questo campo, anche di
metodo. La reazione fu un silenzio greve sul libro di tutta la potente
scuola defeliciana. L’anno dopo De Felice pubblicò il
famoso Rosso e Nero (Baldini e Castoldi) su Mussolini e il fascismo,
ignorando del tutto questo libro. Si ricorda solo, per converso, una
recensione appunto dell’allora nemico di De Felice, Nicola Tranfaglia,
su Repubblica. Ma la vita del libro di Sarfatti fu assai difficile.
Egli aveva ricostruito con estremo dettaglio – spesso avendo
recuperato carte autografe e lavorando sugli originali – tutte
le prese di posizione e le concrete azioni persecutorie del capo del
fascismo verso gli ebrei nel 1938: compresa l’elaborazione del
Manifesto della razza (l’attribuzione era praticamente una novità)
e la preparazione accurata delle leggi antisemite.
Dalla ricostruzione emergeva che il duce aveva condotto di persona
un lavoro di una complessità enorme e Sarfatti, passo passo,
lo aveva seguito – per quanto era stato possibile – nelle
sue varie fasi, con documenti originali e interpretazioni assai innovative.
È ovvio che a uno storico come De Felice, che aveva puntato
a dimostrare come nel 1938 Mussolini avesse «discriminato»
gli ebrei, più che «perseguitarli», una ricostruzione
del genere potesse dare fastidio. In un certo senso, Sarfatti agì
da «revisionista» nei confronti dello storico italiano
accreditato come il massimo esponente italico del revisionismo storiografico.
Se ne accorse George Mosse, che fino ad allora sul fascismo italiano
aveva seguito in tutto De Felice. Rapidamente (e morto De Felice nel
maggio 1996), Mosse fece uno scarto e nel ’97 dichiarò
che su antisemitismo e razzismo non dava retta «fino in fondo»
allo storico reatino e qualche anno dopo certificò che riteneva
Mussolini «un convinto razzista».
Oggi, a quasi un quarto di secolo dalla prima uscita, presso lo stesso
editore Sarfatti pubblica una nuova edizione ampliata di Mussolini
contro gli ebrei (Zamorani, euro 28,00), 217 pagine invece di 199
e con un corpo più piccolo, in cui aggiunge e illustra diversi
nuovi episodi dell’antisemitismo di Mussolini nel 1938: alcuni
recuperati e ridiscussi in base ai nuovi studi pubblicati nel frattempo,
altri ricostruiti in maniera inedita. Chiude il volume un capitolo
sul censimento degli ebrei dell’agosto ’38, che non contiene
novità rispetto al ’94.
Il risultato della seconda edizione è la dimostrazione –
ancor più forte di quanto si sapesse o si potesse intuire –
dell’impegno antisemita di Mussolini: che, come è noto,
era un lavoratore indefesso e veloce, ma fu davvero impressionante
per l’attenzione e la cura con cui predispose il terreno e poi
preparò le nuove leggi contro gli ebrei. Rispetto a vent’anni
fa, sappiamo ora che nel 1938 scrisse articoli (in forma anonima)
sulla campagna razzista; allertò con anticipo, un mese prima
del Manifesto, i ministeri che avrebbero dovuto agire; si preoccupò,
fin dal novembre 1937, di avvertire i nazisti della campagna antisemita
che si andava preparando in Italia. Si fece affiancare da alcuni «tecnici»,
i cui ruoli però sono ancora piuttosto opachi; e poi da qualche
politico; ma fu lui a ideare e a guidare tutta l’operazione,
con fermezza e talora perfino con estrema durezza: come oggi si vede
bene dal modo in cui trattò, perfino sbeffeggiandoli, papa
Pio XI e la Chiesa.
Viene da dire, quasi in automatico, che tutta questa operatività
non poteva essere nata come un fungo, tra la fine del ’37 e
quella del ’38. Mussolini agiva in maniera molto diversa da
Hitler: era metodico, aveva tempi lunghi di preparazione e di elaborazione,
più volte sperimentava e talvolta tornava sui suoi passi, come
fece anche nel 1938, quando – a febbraio – preparò
il dettaglio dell’azione razzista con cinque-sei mesi di anticipo.
Lo aveva fatto anche in altri campi: nel fondamentale e delicatissimo
terreno corporativo, che richiese anni di preparazione; o in quello
della censura dei libri. È plausibile, quindi, che la preparazione
sia stata molto più lunga, anche se magari non continuativa,
come del resto anche nel 1938.
In effetti, da altre ricerche è emersa una diversa interpretazione
del periodo che anticipò le leggi contro gli ebrei, una preparazione
che risale più indietro nel tempo rispetto al 1936-’38.
Sarfatti ne accenna, ma concentra la sua analisi sul periodo della
persecuzione «pubblica». Eppure è ormai ampiamente
documentato che eliminazioni specifiche di ebrei da vari posti di
responsabilità furono ordinate a partire dal 1933-’34:
accadde nei comuni, nelle province, nei sindacati, negli ospedali,
in qualche caso nelle università. Mussolini poté predisporre
con cura, ben soppesando e con altri stop and go prima del fatidico
1938, il terremoto che provocò con le leggi razziste. Non solo
ci pensò, ma eliminò. È una vicenda su cui continua
a emergere nuova documentazione, ma il quadro complessivo di questo
«prequel» è chiaro e ineludibile.
Eppure, anche con questi limiti, il libro di Michele Sarfatti continua
a restare un piccolo capolavoro della storiografia del Novecento,
in una materia difficile e ancora controversa come quella delle leggi
razziali. Oggi, questo campo storiografico è diventato un campo
di battaglia, soprattutto per le lotte e per le carriere accademiche,
e la qualità della ricerca è andata in caduta libera.
È naturale che quel libro sia ancora, per molti aspetti, un
modello.
Mussolini e gli ebrei: la via
italiana alla catastrofe (e quella “benevola” auto-assoluzione
collettiva)
di Claudio Vercelli
22 dicembre 2017 Libri
http://www.mosaico-cem.it/cultura-e-societa/libri/mussolini-gli-ebrei-la-via-italiana-alla-catastrofe-quella-benevola-auto-assoluzione-collettiva
Come si arrivò alla Leggi
razziali del 1938? Quale il tratto peculiare dato dal dittatore alla
persecuzione degli ebrei? Il Duce mise a punto un “modello originale”
di razzismo antiebraico? Sì, risponde lo storico Michele Sarfatti
in un saggio. Smentendo i luoghi comuni sugli “italiani brava
gente” e le false credenze: non si trattò di fare un
“regalo” all’alleato nazista
Al ripetersi di una mitologia consolidata, quella
per cui l’apparato discriminatorio, e poi persecutorio, contro
l’ebraismo italiano e gli ebrei in Italia sarebbe stato il prodotto
di un atto di deferenza politica e di allineamento ideologico alla
volontà di Hitler, la risposta che deve essere data richiede
l’analisi fredda e obiettiva delle fonti documentarie. Da molti
anni Michele Sarfatti, già direttore del Centro di documentazione
ebraica contemporanea CDEC di Milano, dedica i suoi studi a identificare
e ad argomentare con dovizia i riscontri sulla volontà mussoliniana
e sull’impegno del regime per dare corpo a un organico razzismo
antiebraico nel nostro Paese. La nuova edizione di Mussolini contro
gli ebrei. Cronaca dell’elaborazione delle leggi del 1938 (Silvio
Zamorani editore, Torino 2017, pp. 221, euro 28,00), si presenta ai
lettori italiani, ventitré anni dopo la sua prima pubblicazione,
con un corredo di documenti e ulteriori riflessioni dell’autore
medesimo, che sostanziano ancora meglio il senso dell’oggetto
della ricerca, ossia la traiettoria dell’antisemitismo fascista.
Il lavoro di scavo sistematico, compiuto dallo studioso tra le fonti,
ci restituisce l’ampia intelaiatura che ne è parte, smentendo
incontrovertibilmente la fiera dei luoghi comuni su un fascismo che
sarebbe stato tendenzialmente a-razzista, almeno fino a quando la
guerra non si approssimò, nonché animato da un antiebraismo
recalcitrante. Il 1938, da questo punto di vista, segnò il
passaggio da «una complessa politica discriminatoria a una dura
politica persecutoria». Tuttavia, la filiera delle intenzioni
e poi delle decisioni si articolò in un arco di tempo e attraverso
una qualità del processo decisionale ben più corposi
di quanto un anno, pur decisivo, non possa ora dirci e consegnarci.
Poiché essa era, al medesimo tempo, un punto di arrivo e un
punto di partenza.
Punto di arrivo rispetto alla costruzione e alla diffusione del tema
della «questione razzista», in chiave antisemitica. Punto
di partenza per la sua traduzione in atti legislativi, ovvero in una
politica di Stato che era componente integrante della definizione
di una nuova identità italiana fondata sui processi discriminatori,
sulla vessatorietà amministrativa, sull’esclusione sociale
e, successivamente, sulla persecuzione delle esistenze di quegli italiani
che, invece, non erano più considerati tali.
Il campo d’indagine di Sarfatti rimane quello dell’identificazione
delle modalità e dei passaggi attraverso i quali Mussolini,
tra febbraio e novembre 1938, pervenne a impostare e poi a tradurre
in atti concreti la «persecuzione legislativa antiebraica».
La rilevanza e la fecondità di questo approccio deriva dalla
centralità di Mussolini all’interno degli equilibri tra
poteri fascisti ma anche dal tratto peculiare che il dittatore concorse
nel dare all’impianto legislativo in corso d’opera. L’autore
ha particolare cura nel distinguere alcuni elementi endogeni nel definirsi
del regime persecutorio, separando gli ambiti della convinzione (la
maturazione del pensiero antisemitico) e dell’enunciazione (la
formulazione pubblica del medesimo) da quello dell’azione, cioè
del complesso di atti e fatti che traducono l’una e l’altra
in una dimensione continuativa, informata ai principi della legge
oltreché della politica. Su quest’ultimo aspetto, quindi,
si sofferma con la sua ricerca. A ciò coniuga, ben consapevole
del peso che hanno assunto nel dibattito collettivo, il «preventivo
rifiuto» di tre percorsi interpretativi altrimenti assai comuni,
ossia lo «Shoah-centrismo», il «nazi-centrismo»
e il cliché che continua a consegnare agli italiani una patente
di sostanziale estraneità nei confronti del razzismo. Nessuno
dei tre, qualora decontestualizzati, ha infatti in sé un valore
esplicativo. La Shoah, se è storicamente la stazione terminale
dell’antisemitismo biologico e apocalittico, non è la
chiave per comprendere ciò che la precede. Quanto meno, non
può esserne l’elemento esclusivo, rischiando altrimenti
di appiattire la complessità e la varietà delle manifestazioni
antisemitiche, nei due decenni precedenti alla catastrofe, sulla base
degli effetti che se ne misurarono poi durante la guerra. La medesima
cosa può essere detta a corredo di quegli approcci che rimandano
alla Germania di Hitler come matrice esclusiva, o comunque prevalente,
dell’antiebraismo europeo, esentandosi dal ragionare sulla creazione
e il rafforzamento di “tradizioni del pregiudizio” nazionali,
a partire dalla stessa Italia, a volte destinate ad incontrarsi e
a ibridarsi con quella tedesca. Ovvero, a rafforzarla, influenzandone
quindi alcuni tratti.
L’attenzione esclusiva nei confronti dell’antisemitismo
hitleriano si incrocia semmai con il bisogno di rinnovare lo stereotipo
dell’inabilità nostrana ad assumere in proprio pratiche
discriminatorie, vessatorie e poi persecutorie della minoranza nazionale
ebraica. Fino a giungere ad una benevola autoassoluzione collettiva.
Benché la storiografia si sia posta nel corso del tempo quest’ordine
di problemi, la discussione pubblica è ben lontana dall’averli
accettati come elementi di un approccio critico, e analitico, nei
riguardi del passato collettivo. In Sarfatti non c’è
l’impellenza di rilevare i ritardi o le amnesie di coscienza
bensì il bisogno di argomentare su un’adeguata conoscenza.
Anche per questo la figura e il ruolo di Mussolini tornano ad essere
capitali, avendo egli concorso attivamente alla definizione della
natura del «problema ebraico» e, soprattutto, all’identificazione
degli strumenti legali per porvi rimedio. L’autonomia italiana,
quindi, ne emerge in maniera senz’altro incontrovertibile attraverso
l’indagine dell’intensa attività che tra l’inizio
e la fine del 1938 caratterizzò l’impegno del duce fascista,
il quale si dedicò «allo studio e all’elaborazione
di un’impostazione legislativa che fosse coerente con le caratteristiche
proprie del fascismo, dell’Italia, della loro collocazione internazionale.
Questo vero e proprio lavoro fu da lui condotto con attenzione, con
consapevolezza degli effetti sulla realtà delle norme via via
progettate, con piena autonomia e con ampie collaborazioni. Egli si
impegnò nella definizione di un modello originale di persecuzione
degli ebrei». La qual cosa rafforza la consapevolezza, a distanza
di settanta e più anni, della centralità dell’apparato
normativo varato nel 1938, e poi corroborato delle successive persecuzioni,
nel definire i tratti non solo degli esclusi ma anche dei caratteri
degli inclusi, ossia dei possessori di quel «sangue italiano»
che avrebbe dovuto dominare un nuovo ordine mediterraneo.
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Cesare Jarach (1884-1916)
Un economista ebreo nella
Grande Guerra
A cura di Francesco Forte e Alberto Cavaglion
Con uno scritto di Luigi Einaudi
Cesare Lazzaro Samuele Jarach (Casale Monferrato 1884 - Palchisce
sul Carso 1916), si laureò sotto la guida di Luigi Einaudi
e divenne giovanissimo delegato tecnico della commissione parlamentare
d’inchiesta sulle condizioni di vita contadine nel Mezzogiorno,
occupandosi degli Abruzzi. Nell’ambito di quell’incarico
produsse uno studio considerato, per la sua profondità, l’intelligenza
metodologica con cui fu condotto e la precisione dell’analisi,
un lavoro pionieristico e tuttora un riferimento indispensabile per
lo studio della società abruzzese e in generale per la storia
migratoria dell’Italia meridionale.
Saggista, ricercatore e teorico dell’economia e della finanza,
in quanto esperto di problematiche dell’emigrazione, divenne
nel 1911 ispettore del commissariato per l’emigrazione a Roma
e nel 1913 passò a dirigere l’ “ufficio di emigrazione
per gli uffici di terra” in Milano. Contemporaneamente collaborò
al giornale «L’azione», espressione del circolo
di giovani studiosi interventisti di ispirazione liberale e di matrice
mazziniano-risorgimentale guidato da Alberto Caroncini. Coerente con
queste posizioni si presentò volontario per il fronte e cadde
nei primi giorni del novembre 1916.
Nel libro un saggio di Francesco Forte analizza il
lavoro scientifico di Cesare Jarach come economista: brillante allievo
di Luigi Einaudi, impegnato in ricerche innovative e ancora oggi di
grande interesse; Alberto Cavaglion traccia invece un ritratto di
Jarach come intellettuale ebreo italiano nel suo impegno civile di
partecipazione alla vita dello Stato - fino alle posizioni di interventismo
liberale, di stampo risorgimentale e diretto risultato di un pensiero
largamente diffuso nell'ebraismo italiano dei decenni post-unitari
di fare parte di un corpo statale unito e non frazionabile sulla base
dell’identità religiosa.
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La salute psicomotoria
L’osservazione dello
sviluppo dei bambini inizia già all’asilo nido. I risultati
ottenuti da uno studio pilota
A cura di Dino Bondavalli, Enzo Grossi, Odelia Liberanome,
Giorgio Mortara
Utilizzare il contesto di gioco come
ambiente privilegiato per osservare l’andamento dello sviluppo
psicomotorio dei bambini; introdurre nelle scuole italiane un modello
oggettivo di valutazione che consenta di individuare fin dai primi
mesi di vita eventuali ritardi nelle competenze che possono rappresentare
campanelli di allarme per l’autismo e altre patologie neuropsichiatriche.
Sono questi gli obiettivi del progetto di prevenzione primaria “La
Salute Psicomotoria”, realizzato da Villa Santa Maria, Centro
di eccellenza a livello internazionale (Tavernerio, Como) specializzato
nella cura e riabilitazione di bambini e ragazzi affetti da autismo
e patologie neuropsichiatriche, in collaborazione con AME e Sochnut
Italia - Agenzia Ebraica per Israele. L’iniziativa, realizzata
negli istituti delle Comunità Ebraiche di Firenze, Torino,
Trieste e Roma, ha consentito di individuare non solo bambini con
problemi in una o più aree dello sviluppo, ma anche piccoli
con capacità particolarmente avanzate. I sorprendenti risultati
di questo studio pilota riportati nel volume sono stati illustrati
nel convegno che si è svolto il 7 febbraio 2017 a Palazzo Pirelli
a Milano.
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L’apporto degli ebrei all’assistenza
sanitaria sul fronte della Grande Guerra
Atti del Convegno Trieste, 8 maggio
2016
a cura di Rosanna Supino - Daniela Roccas
L’apporto ebraico alla sanità
nell’esercito italiano nella Prima Guerra Mondiale è
esaminato nei suoi vari aspetti: da quelli quantitativi e di distribuzione
nei gradi e nelle funzioni dell’esercito, alla presenza di medici
di grande valore (tra gli altri Alessandro Lustig, Giuseppe Levi,
Guido Aronne Mendes, Enrico Modigliani, Marco Levi Bianchini), alla
partecipazione di molti ebrei come volontari nell’esercito italiano.
Contemporaneamente altri ebrei (tra loro i triestini Edoardo Weiss
e Giulio Ascoli) si trovarono ad operare sul fronte austro-ungarico
come sudditi dell’impero, vivendo complesse e drammatiche vicende
di appartenenza, di richiami all’irredentismo e di adesione
al sionismo.
Viene approfondita la riflessione sulla posizione dell’ebraismo
italiano dopo l’emancipazione ottocentesca nella vita del Paese
in quel momento così grave, mentre alcuni degli autori ricordano
le innovazioni scientifiche apportate durante il conflitto. Grandi
progressi infatti si ebbero ad opera di medici militari ebrei nella
chirurgia, nella cura delle malattie infettive (come la TBC) e delle
psicopatologie di origine bellica, degli effetti di gas nervini, delle
patologie da congelamento, mentre divenivano pratica comune le vaccinazioni
di massa contro tifo, colera e difterite e fu messo a punto un apparecchio
a raggi X portatile. Nel libro si ricorda anche l’impegno nella
didattica sanitaria (molti furono attivi anche nell’insegnamento
sul campo e nell’università castrense di San Giorgio
di Nogaro).
Non mancano dati e riflessioni sull’analoga esperienza in quegli
anni dell’ebraismo francese al fronte e l’analisi della
presenza femminile, soprattutto nell’ambito dell’assistenza
infermieristica, oltre che della partecipazione del rabbinato per
quella religiosa e spirituale.
Il libro raccoglie gli atti del convegno svoltosi a Trieste l’8
maggio 2016, accompagnati da un ampio apparato illustrativo. Chiude
il volume un elenco di medici, paramedici e infermiere, oltre a militari
in sanità e rabbini, che si sono impegnati sul fronte italiano
durante la Grande Guerra.
Gli autori:
Pierluigi Briganti, Giovanni
Cecini, Rita Corsa, Maddalena Del Bianco Cotrozzi, Andrea Finzi, Valerio
Marchi, Pierpaolo Martucci, Matteo Perissinotto, Daniela Roccas, Rosanna
Supino, Mauro Tabor.
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