NOVITÀ
Disponibile dal 3 maggio 2019:
Bruno Avataneo Le ossa affaticate di Salomon
Castelletti. Storia di una famiglia di ebrei mantovani
Prefazione di Alberto Cavaglion
Come si legge nella Prefazione
di Alberto Cavaglion «questo non è un libro di memorie»,
anche se «è costruito sulla memoria»; un testo
in cui l’autore non rinuncia a puntellare le storie ricomposte
attraverso la ricerca documentaria con le suggestioni che lo hanno
accompagnato nel suo percorso esistenziale. Viene percorsa così
nelle pagine del volume la trama plurisecolare dei Castelletti, immersa
nella vita della città di Mantova. Una vicenda che inizia con
alcuni documenti del Cinquecento in cui si trovano i nomi dei primi
appartenenti alla famiglia: Moise, Benedetto, Gentilhomo, Daniel.
La narrazione si dipana negli anni tra successi e insuccessi, fatti
storici e della vita di ogni giorno che coinvolgono i suoi tanti protagonisti,
all’interno di una comunità che sperimentò alcuni
secoli di relativa tranquillità (i Gonzaga durante il loro
dominio intrattennero buoni rapporti con i loro sudditi ebrei e così
continuarono a fare gli Asburgo), visse le speranze del Risorgimento,
la crescita economica e civile durante i primi decenni dello Stato
unitario per poi dover affrontare il crescente antiebraismo fascista
e la tragedia delle deportazioni verso la Shoah.
226 pp. - 28 figure nel testo
- ISBN 9788871582399 - 28,00 Euro
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È ORA DISPONIBILE IL MANIFESTO DEI SEGNI
RADICALI DELLA SCRITTURA CINESE
Sul manifesto i 214 segni (con eventuali varianti)
con indicato il numero del radicale, la pronuncia relativa del cinese
mandarino e pinyn con i segni dei toni espressi anche con la numerazione
relativa, il nome del carattere e isuoi significati più diffusi,
la chiave di lettura e una tabella con i segni dei numeri, compresi
quelli speciali per l’uso finanziario.
Formato 50 x 70 cm - Carta uso mano avorio
da 200 g/m2 - Codice identificativo: B.P. 70 |
Una nuova pubblicazione:
Corrado Vivanti - Clelia Della Pergola
Da Mantova alla Svizzera. In fuga per la
salvezza
A cura di Alessandro Vivanti - Prefazione di
Silvana Calvo
Dal settembre 1943 la situazione degli
ebrei in Italia, già molto difficile per le leggi antiebraiche
emanate nel 1938, divenne ancora più drammatica quando –
come ha scritto Michele Sarfatti – dalla “persecuzione
dei diritti” si passò, sotto l’occupazione nazista
e la Repubblica sociale italiana, alla “persecuzione delle vite”.
Gli ebrei che si trovavano nelle zone dominate dalle forze nazifasciste
dovettero cercare scampo all’immediata minaccia di deportazione
verso lo sterminio. Molti dal Centro e dal Nord dell’Italia
si diressero verso l’unico Paese neutrale che sembrava potesse
dar loro accoglienza: la Confederazione Elvetica.
Nel libro sono pubblicati due testi: il primo, una memoria scritta
in età matura da Corrado Vivanti, celebre storico, che ricorda
gli anni della fanciullezza a Mantova; il secondo è il diario
tenuto dalla madre, Clelia Della Pergola, nei mesi di internamento
in Svizzera, dove la famiglia riuscì fortunosamente a trovare
rifugio sino alla fine del conflitto. Due testi che riportano al periodo
in cui la situazione degli ebrei italiani cambiò repentinamente,
passando in un decennio da una apparente normalità al baratro
della Shoah. La complessità e la tragicità di quegli
anni sono riflesse nelle vicende che coinvolsero la famiglia Vivanti,
ben inserita nell’ambiente di una città di provincia
in cui la presenza ebraica, attestata fin dal 1145, venne incoraggiata
dai Gonzaga. Soltanto col regime mussoliniano le restrizioni nel settore
educativo e lavorativo cominciarono a minarne la tranquillità,
influenzando pesantemente la vita quotidiana. Dopo le pagine di Corrado
Vivanti il Diario svizzero di Clelia Della Pergola ci porta così
ai giorni concitati della fuga e alla lunga permanenza in Svizzera
nell’incerta condizione dei rifugiati.
Corrado Vivanti (Mantova 1928 -
Torino 2012), è stato docente di Storia delle dottrine politiche
all’Università di Torino, di Storia moderna all’Università
di Perugia e alla Sapienza di Roma. Nel dopoguerra ha aderito al movimento
degli haluzim e tra il 1950 e il 1953 è vissuto in Israele.
Tornato in Italia, si è laureato all’Università
di Firenze con Delio Cantimori su Le campagne del Mantovano nell’età
delle riforme. Dal 1957 al 1962 ha studiato a Parigi sotto la direzione
di Fernand Braudel. Nel 1962 è stato chiamato a Torino all’Einaudi,
per occuparsi in particolare del settore storico; con Ruggiero Romano
ha diretto la Storia d’Italia; ha curato l’edizione
delle Opere di Machiavelli e, tra il 1996 e il 1997, Gli
ebrei in Italia. Nel giugno 2002 ha ricevuto il Premio Presidente
della Repubblica per la Storia, all’Accademia dei Lincei di
Roma.
Clelia Della Pergola Vivanti (Firenze 1896 - Mantova
1981), secondogenita di Raffaello Della Pergola ed Emilia Todeschini,
si trasferì da Firenze a Mantova con la famiglia. A tredici
anni cominciò a lavorare nella pellicceria dei suoi zii, entrando
poi in società con un cugino. Si sposò a Mantova con
Moise Gino Vivanti nel 1919, ed ebbe due figli, Arrigo e Corrado.
Dopo il matrimonio, contrariamente a quello che avrebbe voluto suo
marito Gino, riprese l’attività che l’appassionava,
in una pellicceria di sua proprietà, e da allora – tranne
che nel periodo della fuga in Svizzera, fra il dicembre 1943 e il
1945 – vi lavorò fino al giorno prima di morire, quasi
ottantacinquenne.
88 pp. con 38 illustrazioni - ISBN 978-88-7158-238-2
- 10,00 Euro
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A ottant'anni
dal novembre 1938 esce il libro:
Valeria Graffone Espulsioni
immediate. L’Università di Torino e le leggi razziali,
1938
Presentazione
di Gianmaria Ajani, Rettore dell'Università di Torino - Prefazione
di Fabio Levi
“La violenza della discriminazione
antisemita compiuta anche all’interno delle Università
dal regime fascista, qui riprodotta e illustrata da Valeria Graffone,
grazie alle carte serbate ed ordinate nell’Archivio Storico
dell’Università di Torino, si manifesta, proprio in quelle
carte, con una evidenza crudissima. È un impasto al contempo
ottuso e crudele quello che emerge dalla contabilità della
discriminazione, che carica di vergogna non solo chi volle tale violenza
e ne dispose gli strumenti coattivi, ma anche chi, all’interno
degli Atenei, ne fu esecutore. Una vergogna
che conferma lo scandalo dell’adesione pressoché totale
dei docenti ed accademici italiani al giuramento di fedeltà
al fascismo, nel 1931. Con l’approvazione e la successiva attuazione
del corpus delle leggi antiebraiche, e delle disposizioni amministrative
che le accompagnarono, tra il settembre e il novembre 1938, la politica
razzista del governo fascista colpì in modo esteso i 27 Atenei
del Paese, lasciando al loro interno una ferita profonda”. Dalla
Presentazione al volume del Rettore dell’Università
di Torino Gianmaria Ajani
“I documenti proposti al lettore
in questo libro, nella loro cruda esemplarità, mostrano meglio
di qualsiasi ragionamento i tanti aspetti di una pagina oscura nella
storia dell’Università di Torino e di tutto il Paese.
Mostrano la violenza, la protervia e l’assoluta irragionevolezza
delle misure che portarono nel 1938 all’espulsione degli ebrei
– docenti, studenti e personale tecnico-amministrativo –
dall’Ateneo torinese, come peraltro dall’insieme della
vita sociale; la dimensione molto ampia della ferita allora inferta,
anche solo in termini percentuali sull’insieme della comunità
accademica; la solerte obbedienza dell’istituzione nelle sue
diverse articolazioni; l’assenza di qualsiasi opposizione o,
più precisamente, la diffusa acquiescenza a tutti i livelli
di chi assistette all’espulsione dei colleghi senza aprire bocca;
l’offesa alla dignità della cultura e la depravazione
dell’intelligenza di tanti uomini colti; la meschinità,
dopo la guerra, di un sistema e di tanti individui incapaci di rimediare
alle proprie colpe, perseverando, pur in condizioni molto diverse,
nell’errore e nell’offesa”. Dalla
Prefazione di Fabio Levi
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Alberto Cavaglion
su libro di Bruno Taricco Il ghetto delle Cherche. Appunti per una
storia della comunità ebraica di Carmagnola
Ticketless
– Finestre
Dopo
aver tratteggiato, in un precedente volume, la ben diversa storia
di Cherasco, Bruno Taricco si conferma adesso, in questo suo lavoro
(Il ghetto delle Cherche. Appunti per una storia della comunità
ebraica di Carmagnola, Zamorani, 2018), un ricercatore ostinato, poco
incline a ipotesi fantasiose. Molto simile ai personaggi di cui narra
la storia, sempre alle prese con la vita nella sua talora aspra, ruvida
concretezza. Altri costruirebbero castelli in aria, Taricco riferisce
ciò che ha trovato.
Le “finestre del ghetto”, già note attraverso la
storia della comunità astigiana e i lavori pionieristici di
Laura Voghera Luzzatto, o grazie alle pagine autobiografiche di Brofferio,
del ghetto di Torino visto dalle finestre limitrofe, pagine purtroppo
ancora oggi troppo poco conosciute perché poco accessibili
(I miei Tempi, Tip. Nazionale Biancardi, 1859).
Fra le interdizioni dell’antico regime, vi era la norma che
imponeva agli ebrei di bloccare le finestre che guardavano la strada
principale, con scuri di legno. Taricco con tono discorsivo, ma sempre
sorretto dai documenti, spiega la natura di queste strambe controversie,
la scelta ad un certo punto inevitabile di ribellarsi, compiuta da
Salvador Jona e Abram Laudi. Le autorità si affaticavano a
misurare la distanza tra gli edifici e le chiese. Quale fosse il massimo
consentito non è dato sapere, contava l’atto del misurare.
Non fatichiamo a immaginare i sopralluoghi, di fronte a spettatori
da un lato estasiati dall’altro impauriti. Lo scandalo maggiore
a Carmagnola investiva la piazza S. Agostino. In capo della piazza
verso mezzogiorno si vedeva la chiesa degli Agostiniani, che in facciata
“sopra la porta grande”, portava “dipinta in prospettiva
l’imagine del Santo Sudario di Nostro Signore, con l’effiggie
della Santissima Vergine et altri Santi”. Dalla chiesa di S.
Agostino all’angolo della casa abitata da Salvador Jona, c’erano
poco più di 60 metri; in più l’alloggio del malcapitato
aveva tre finestre che si aprivano “non solo nella publica piazza,
ma anche nella strada grande, che viene dalla canonica sovra la piazza”.
La stessa cosa succedeva per il piano superiore dove “obliquamente
si puo guardare da dette finestre et galleria la porta etchiesa di
detto S. Agostino”. Non bastava. La stessa casa aveva poi sulla
Contrada Maestra sei finestre al piano nobile e sei al piano superiore,
“quatro di dette finestre sono al dirimpetto di quatro finestre
del Palazzo comunale della città, due de’ quali servono
per la salla del Conseglio, altre due per le scuole” e, siccome
la strada in quel punto era larga poco più di sette metri,
si correva il richio che Jona potesse vedere o sentire quanto capitava
nel palazzo comunale. Una vicenda surreale, che si ripete per altri
nuclei famigliari. Un capitolo drammatico nella storia delle “case
degli ebrei”. Sarebbe piaciuto al compianto Michele Luzzati,
primo storico della comunità carmagnolese, per una vita intera
legatissimo alla sua “petite patrie”.
Alberto
Cavaglion
in “Moked”,
Attualità 28/11/2018 moked.it/blog/2018/11/28/ticketless-finestre/
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Recensione di Giuliano Capecelatro al libro
Francesca Nobili Spada Nell’acquario di
Angiporto Galleria
LETTURE
C'ERA UNA VOLTA L’ANGIPORTO
Sarebbe
riduttivo considerarlo un luogo, un mero dato topografico, spiazzo
angusto seminascosto dietro via Toledo da un’edicola, che probabilmente
sta lì da quando esistono i giornali. No, l’Angiporto
Galleria – oggi, per la toponomastica, piazzetta Matilde Serao
– è un topos cruciale della recente storia di Napoli;
quella che parte dal secondo dopoguerra, in una città materialmente
devastata dai bombardamenti, spolpata, avvilita e press ché
moralmente annichilita dal fascismo, dalle incursioni aeree e dalla
presenza degli alleati.
Un romanzo inedito, incompleto, riemerso quasi casualmente, riapre
quelle pagine tormentate, le investe di una luce nuova, per molti
aspetti rivelatrice. Nell’acquario di Angiporto Galleria
è il testo cui stava lavorando, quando si uccise, Francesca
Spada, assurta a fama come tragica protagonista del romanzo-reportage
di Ermanno Rea, Mistero napoletano.
Lo ha riesumato e curato la figlia, Viola Lapiccirella, autrice anche
delle belle illustrazioni, che nell’introduzione, come chiave
di lettura, evoca il dipinto Angelus Novus di Paul Klee e
l’inquietante interpretazione di Walter Benjamin, per cui la
catena di eventi etichettata come passato, verso cui indirizza lo
sguardo l’angelo, è solo catastrofe, una tempesta che
lo spinge irresistibilmente verso il futuro. Perché ciò
che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.
Non v’è forse epitaffio più calzante per quella
breve stagione dell’intellettualità napoletana, conclusa
con un’impressionante teoria di suicidi, con disperate fughe
(suicidi simbolici) dalla città – via, via: Milano, Roma
– di chi voleva sopravvivere e provare a dire, fare qualcosa,
dopo isolati, spesso sterili, aneliti generosi a mantenere viva una
speranza, un ideale palingenetico.
L’Angiporto era il cuore di questa vicenda. C’erano le
sedi dei giornali: «l’Unità», dove lavorava
Francesca Spada, «il Mattino», «Paese Sera».
Lì si incrociarono alcune delle migliori intelligenze ed energie
morali della città. Dal nume tutelare Renato Caccioppoli all’indomito
Gerardo Marotta, che fino all’ultimo giorno di vita avrebbe
continuato a combattere per non far naufragare l’Istituto per
gli studi filosofici, stimatissimo in campo internazionale, negletto
da istituzioni locali e nazionali; da Guido Piegari (la cui figura
sfuggente è stata riproposta da Rea) a Renzo Lapiccirella,
medico di mente sottile, arguta, chiamato a dirigere la pagina napoletana
del quotidiano comunista.
I personaggi che animano il romanzo di Francesca Spada (che da scrittrice
ritrova anche il suo cognome originario, Nobili) sono appena accennati,
fantasmi nascosti sotto anonimi nomi: Maria, Piero, Massimo, Laura,
Paolo, Marcella, Giovanni. Tutti immersi nell’acquario dell’Angiporto,
nel clima pesante e fervente di quei giorni.
Clima che il romanzo restituisce in pieno. Con un Partito comunista,
che incarnava l’aspirazione a una società più
giusta, ma era di fatto un apparato rigido, soffocante. Che non tollerava
deviazioni dalla linea indicata, tanto da additare Jean-Paul Sartre
come un nemico del popolo. E con dei giovani intellettuali insofferenti
dei dogmi stalinisti, che si affidavano all’acume scettico di
Caccioppoli, e si facevano espellere per aver creato l’eretico
gruppo Gramsci, che leggevano l’inviso Sartre o Camus, in cui
sentivano vibrare quel male divivereche,anche nell’orizzonte
agognato della futura umanità, sperimentavano sulla propria
pelle. Ma che dovevano concludere, come scrive Francesca Nobili Spada,
«Il Godot che in tanti a quell’epoca aspettavamo non sarebbe
arrivato più. E peggio che mai per una donna».
Giuliano
Capecelatro
http://www.leggendaria.it/2018/07/
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Una riflessione interessante di Giulio Berruti, docente
di Storia del Cinema, con uno sguardo particolare alla forma letteraria
del libro di Francesca Nobili Spada Nell’acquario
di Angiporto Galleria
in http://cortoin.screenweek.it/archivio/cronologico/2018/04/il-fascino-del-romanzo-ritrovato.php
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Recensione di Anna Segre al libro di Silvana Calvo
L’informazione rifiutata
La Svizzera dal 1938 al 1945 di fronte al nazismo e alle notizie del
genocidio degli ebrei
RECENSIONE
SU HA KEILLAH
http://www.hakeillah.com/2_18_16.htm
Come può un paese democratico mantenere la neutralità
tra democrazie, fascismo e nazismo? Come può offrire un’informazione
che appaia equilibrata per non suscitare le proteste di uno dei contendenti?
Come può adeguatamente mettere al corrente i suoi cittadini
del fatto che è in corso un genocidio se contemporaneamente
deve mantenere rapporti amichevoli con la potenza che lo sta perpetrando?
E se poi l’esigenza di mantenere rapporti amichevoli è
rafforzata dal timore più che concreto di un’invasione
e dalla volontà di non offrire pretesti con una presunta violazione
della neutralità? La risposta è semplice quanto triste:
non può. E infatti scopriamo con sconcerto che la Svizzera
nei primi anni della guerra aveva dovuto accettare fin troppi compromessi:
censure sui giornali, notiziari radio edulcorati, informazione ufficiale
filtrata. Tanto per fare un esempio, il giornale socialista ticinese
“Libera Stampa” subì 14 giorni di sospensione per
aver pubblicato l’11 luglio 1940 la notizia dal titolo Battaglia
navale nel Mediterraneo. Navi italiane colpite e in fuga, dando più
peso ai comunicati inglesi che a quelli italiani.
Silvana Calvo con un lavoro minuzioso e instancabile è riuscita
a ricostruire un quadro molto dettagliato della Svizzera di quegli
anni: istituzioni, partiti e movimenti politici, i giornali con i
rispettivi orientamenti ideologici, le agenzie di stampa, i cinegiornali,
i notiziari radiofonici; ci illustra inoltre le pressioni e i provvedimenti
punitivi che i giornali subivano se erano giudicati non neutrali e
gli escamotage utilizzati per far capire al proprio pubblico quali
informazioni erano da prendere sul serio e quali no senza incappare
nelle maglie della censura.
A questa prima parte più generale segue quella dedicata più
specificamente all’informazione sulla Shoah, che si inserisce
in questo quadro e contemporaneamente ne rappresenta l’elemento
più inquietante e paradossale. L’immagine di copertina,
la dichiarazione anglo - russo - americana sul genocidio degli ebrei
in corso pubblicata su Libera Stampa il 19 dicembre 1942, conferma
ciò che il titolo stesso del libro fa intuire: in Svizzera
durante la seconda guerra mondiale le notizie non mancavano affatto
per chi voleva informarsi. Eppure, pur abbondante su alcuni giornali
(primo tra tutti, appunto “Libera Stampa” a cui è
dedicata la terza parte del libro), scopriamo con sconcerto che l’informazione
sulla Shoah fu praticamente assente dai notiziari radiofonici dell’Agenzia
Telegrafica Svizzera: dal 1939 al 1945 solo 34 notizie riguardanti
in qualche modo la persecuzione degli ebrei, 23 delle quali provenienti
da fonti dell’Asse. E scopriamo anche con sgomento che nel corso
della seconda guerra mondiale la Croce Rossa svizzera inviò
sul fronte orientale sei missioni mediche (quattro in Russia e due
in Grecia) al seguito della Wermacht i cui membri, assoggettati come
ausiliari dell’esercito alle leggi penali e all’ordinamento
disciplinare dell’esercito tedesco, avevano l’obbligo
di curare solo i soldati tedeschi e il divieto assoluto di raccontare
ciò che avevano visto.
Oggi ci appare sconcertante che un paese democratico arrivi a tradire
i propri stessi principi in modo così clamoroso, ma bisogna
ricordare la situazione della Svizzera, soprattutto dopo che la Francia
era stata invasa: un piccolo paese completante circondato dalle forze
dell’Asse la cui vittoria appariva imminente; e naturalmente
non mancavano nel paese stesso coloro che simpatizzavano con il fascismo
e il nazismo. In questo quadro, in quella che potremmo definire l’ora
più buia, la Svizzera, pur divisa tra “resistenti”
e “accomodanti”, dimostrò una certa condiscendenza
verso il nazismo ma al contempo un attaccamento caparbio alla propria
sovranità e indipendenza. Tale orientamento si manifestò
in diversi modi, dal piano difensivo che prevedeva la creazione di
un “ridotto nazionale”, cioè l’arroccamento
in una zona più interna della Svizzera in caso di invasione
della parte esterna, alla costituzione della sezione “Esercito
e focolare” con lo scopo “di rinforzare l’ideale
patriottico, promuovere la volontà di difesa, rinsaldare i
legami tra il soldato e il paese, distrarre e sviluppare spiritualmente
i mobilizzati”; in una prima fase la sua azione fu rivolta alla
propaganda tra i soldati e in seguito tra i civili.
Sconcertante leggere dalle “linee direttive” di “Esercito
e Focolare” del 28 dicembre 1940: “Non si può negare
l’esistenza di un problema ebraico solo perché - fortunatamente
- non si è manifestato da noi con l’acutezza che possiamo
osservare altrove. Ma se vogliamo restare obiettivi, siamo costretti
a notare che l’ebreo è inassimilabile tant’è
che nei due millenni da che dura la sua dispersione, non è
mai riuscito a stabilirsi e integrarsi in nessun luogo. In passato
alcuni cantoni e comuni svizzeri avevano degli statuti speciali per
gli ebrei che per tutto il tempo della loro applicazione hanno assicurato
un regime di rispetto dei reciproci diritti e doveri e reso inesistenti
manifestazioni antisemite. Questi Statuti, scaturiti da un profondo
spirito cristiano, hanno garantito la pace tra le parti, e non una
confusione di sentimenti e ideologie foriera di ogni possibile eccesso”.
Naturalmente tali linee suscitarono proteste (nell’esercito
svizzero erano presenti anche ebrei) e fu poi pubblicata una rettifica.
Ma in seguito suscitarono proteste e censure anche le linee direttive
del 19 giugno 1943 contro l’antisemitismo.
Fortunatamente il quadro non è solo a tinte fosche: Silvana
Calvo ci offre anche ampie informazioni su tutti coloro che invece
si adoperarono per diffondere le informazioni sulla Shoah in corso
e per aiutare gli ebrei profughi: gruppi politici e religiosi, giornali
come appunto il già citato “Libera Stampa” e, naturalmente
gli stessi ebrei svizzeri o residenti in Svizzera. Un panorama variegato,
un insieme di voci che naturalmente tendono ad aumentare di intensità
man mano che la guerra procede e si profila la vittoria degli Alleati.
Un lavoro di ricerca talmente ampio che un libro, pur così
denso e corposo, non basta a dare conto diffusamente di tutto. Vale
la pena ricordare che alcuni temi specifici (per esempio le navi dei
profughi e i naufragi di cui si parla in questo numero) hanno trovato
e troveranno uno spazio più ampio sulle pagine di Ha Keillah
di cui Silvana Calvo è da molti anni una preziosa collaboratrice.
Anna Segre
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Un saggio su Primo Levi
di Martina Mengoni
Variazioni Rumkowski: Primo Levi e la
zona grigia
15 x 21 cm - pp. 64 - ISBN 9788871582320 - 10,00 Euro
Mettendosi sulle piste di Chaim Rumkowski, controverso
personaggio che fu per alcuni anni a capo del ghetto di Lublino sotto
l'occupazione nazista e finì la sua tragica vicenda nel campo
di sterminio insieme a gran parte degli ebrei della città polacca,
e della zona grigia in cui lo situa idealmente Primo Levi occupandosene
in un suo racconto, Martina Mengoni ha dato forma a un saggio critico
che in breve tempo si è rivelato imprescindibile per gli studi
sul grande scrittore torinese. Apparso originariamente online nel
sito del Centro internazionale di studi Primo Levi di Torino, Variazioni
Rumkowski si è imposto all’attenzione per la mole
sorprendente delle scoperte fattuali, per la finissima quanto rigorosa
interpretazione dei testi e dei contesti, infine per la sua scrittura
asciutta, chiara e veloce.
Variazioni Rumkowski è un titolo musicale che per
la sua precisione e ironia avrebbe potuto piacere allo stesso Primo
Levi. Riproporlo in forma cartacea significa assicurare un’ulteriore
via di circolazione – una nuova pista da percorrere –
a uno studio tra i più illuminanti e felici degli ultimi anni.
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Recensione di Daniela Manini al libro di Silvana Calvo
L’informazione rifiutata
La Svizzera dal 1938 al 1945 di fronte al nazismo e alle notizie del
genocidio degli ebrei
https://www.glistatigenerali.com/geopolitica_storia-cultura/linformazione-negata-quando-la-neutralita-distrugge-lumanita/
3 giugno 2018
“L’informazione
negata”: quando la neutralità distrugge l’umanità
Neutralità.
È la parola chiave di questo libro, la parola che ha informato
tutte le scelte e gli indirizzi delle autorità svizzere durante
il Secondo conflitto mondiale e nel periodo che lo ha immediatamente
preceduto. Una neutralità che, se ha consentito alla Svizzera
di non essere direttamente coinvolta, ha anche comportato pesanti
responsabilità morali. Perché una domanda sorge spontanea:
si può essere neutrali di fronte all’iniquità
e all’orrore, o si diventa in qualche modo complici?
È il quesito inquietante che sgorga dalla lettura di questo
libro, frutto di una ricerca accuratissima, durata anni, con la consultazione
di migliaia di documenti. Un libro dalla stesura chiara, esauriente
in ogni aspetto, che consente al lettore di farsi un quadro completo
e circostanziato della situazione.
Silvana Calvo è partita da una ricorrente vulgata,
quella che dice che della Shoà durante la guerra la gente non
sapeva nulla, o quasi nulla… tutto si è scoperto dopo.
E allora ha voluto vedere a fondo che cosa veramente le fonti di informazione
svizzere dicessero e scrivessero in quegli anni, e, soprattutto, che
cosa nelle ‘alte sfere’ si sapesse, in rapporto a quanto
arrivava ai cittadini comuni.
L’autrice propone una accurata rassegna di tutti i mezzi di
informazione allora disponibili: bollettiniradiofonici, cinegiornali,
organi di stampa nazionali, locali, e confessionali. Tutti erano sottoposti
a ‘censura di guerra’ che imponeva assoluta equidistanza
tra le parti in conflitto e divieto di formulare critiche e commenti
sfavorevoli, soprattutto nei confronti della Germania e dell’Italia.
È evidente come verso le potenze dell’Asse ci fosse in
realtà un riguardo particolare: da un lato le pressioni tedesche
e le più o meno velate minacce erano un elemento oggettivamente
preoccupante, dall’altro non mancavano in Svizzera aperte simpatie
per il Nazismo e il Fascismo e, quantomeno nei primi anni di guerra,
la convinzione che proprio queste forze avrebbero prevalso. Era quindi
opportuno, in vista del futuro assetto dell’Europa, guadagnarsi
rispetto e favore.
I mezzi di comunicazione erano quindi soggetti a commissioni di controllo,
che, in caso di infrazione alle regole imposte, prevedevano richiami,
ammende, ed anche la sospensione delle pubblicazioni.
Alla fine i giornali si ridussero, per quanto riguardava le notizie
sul conflitto, a riportare parola per parola (e citando la fonte)
i testi inviati dall’Agenzia Telegrafica Svizzera che
li riceveva dall’estero, e che ne diffondeva direttamente una
selezione nei quattro bollettini radiofonici in tre lingue. Anche
in questo occorrevano speciali cautele: non dare più notizie
che provenissero da parte alleata, rispetto a quelle di parte tedesca,
non usare (nel caso della carta stampata) caratteri che dessero più
rilievo alle une piuttosto che alle altre, eliminare comunicazioni
che contenessero parole pregiudizievoli soprattutto per Germania e
Italia.
A questo proposito, nel libro si ricorda una controversia sorta per
la pubblicazione di un dispaccio alleato che parlava di ‘navi
italiane in fuga’ in occasione di uno scontro nel Mediterraneo,
espressione ritenuta lesiva nei riguardi dell’onorabilità
italiana.
In questo quadro si inserì, in modo per molti versi anomalo,
anche l’azione informativa di "Esercito e Focolare".
Si trattava di una iniziativa dell’Esercito finalizzata, in
un primo momento, a rafforzare la motivazione dei 400.000 mobilitati
attraverso iniziative di vario genere che promuovessero una immagine
positiva del paese, per il quale valesse la pena di sacrificarsi,
difendendo i valori su cui poggiava storicamente la Confederazione.
Si temeva infatti, nei primi anni di guerra, che la Svizzera potesse
subire un tentativo di invasione, per fronteggiare il quale erano
stati predisposti piani di difesa.
Constatando, tuttavia, che tra la popolazione si stava diffondendo
un atteggiamento disfattista, l’opinione, cioè, che essendo
la Germania incontenibile, tanto valeva adeguarsi alla prospettiva
di una Europa hitleriana e cedere, prima di esservi costretti con
la forza, "Esercito e Focolare" pensò di estendere
al sua azione anche al contesto civile. Senza un convinto sostegno
della popolazione, l’esercito, infatti, sarebbe stato irrimediabilmente
indebolito.
Negli ultimi mesi del 1941 ebbero così inizio i Corsi di Orientamento
della Popolazione, cui avrebbero partecipato cittadini scelti, di
provata fiducia, su indicazione delle autorità locali. La loro
partecipazione assumeva il carattere di prestazione militare. Questi
cittadini, a loro volta, avrebbero diffuso le idee attraverso contatti
personali.
Ai conferenzieri, opportunamente formati, che tenevano i corsi, erano
inviate regolarmente delle indicazioni dei temi da trattare, sotto
forma di Linee Direttive. Nonostante la resistenza che il progetto
trovò inizialmente presso le Autorità Federali, esso
ebbe tuttavia modo di affermarsi e realizzarsi per tutta la durata
della guerra, anche se non mancarono contrasti su alcune delle Linee
Direttive.
Proprio per i suoi scopi, questo tipo di informazione andava in evidente
controtendenza rispetto alla visione ‘sterilizzata‘ dei
media tradizionali. Si concentrava l’attenzione in particolare
sulla Germania, dalla cui martellante propaganda anche in territorio
svizzero era necessario difendersi: gli argomenti diffusi da stampa
e cinema tedeschi e le dicerie messe in circolazione da Berlino andavano
puntualmente rintuzzati e contraddetti, rivelando quale fosse la realtà
delle cose.
Trattandosi di informazione sotto la giurisdizione dell’Esercito,
che aveva perciò carattere privato, in questi interventi era
possibile sottrarsi largamente ai rigori della censura. Si venne così
definendo una situazione duale. Da un lato la rigidissima neutralità
ufficiale portata avanti dal Governo, dall’altro l’orientamento
e l’informazione ‘sotterranea’ gestita dall’esercito.
Tornando ai media tradizionali, se in merito agli andamenti delle
operazioni militari bisognava essere cautissimi, rispetto alle specifiche
informazioni sulla persecuzione degli ebrei, scendeva addirittura
un silenzio pesante, soprattutto nei bollettini radiofonici, che rappresentavano
la fondamentale fonte di informazione quotidiana che raggiungeva praticamente
tutti gli Svizzeri. È significativo come dalla consultazione
delle 30.000 cartelle che costituiscono la raccolta completa dei comunicati
radio dal 1939 al 1944, emergano solo una trentina di notizie riguardanti
il tema, spesso ridotte a poche parole.
Come sottolinea l’autrice, in ossequio alla più rigorosa
neutralità era vitale che le parti in guerra venissero presentate
come moralmente equivalenti e ugualmente degne di rispetto».
Per questo, per evitare cioè che le notizie delle uccisioni
in massa degli ebrei mettessero a rischio tale precario equilibrio,
non trovò spazio nei notiziari neppure il Comunicato Congiunto
Interalleato del dicembre 1942 che parlava apertamente della
politica di sterminio messa in atto dai Nazisti in ossequio ai propositi
più volte enunciati da Hitler, e descriveva una Polonia trasformata
in ‘mattatoio’.
Le informazioni, anche circostanziate, di cui disponevano le Autorità
Federali, provenienti da fonti alleate e da associazioni ebraiche
presenti in territorio svizzero, non dovevano arrivare ai cittadini,
anche per paura che potessero essere fonte di disordini sociali, di
aspre contrapposizioni tra chi era sinceramente antifascista e chi
coltivava, oltre che simpatie per l’Asse, anche un vigoroso
antisemitismo.
La pace sociale era bene primario, e doveva essere salvaguardata ad
ogni costo, evitando ogni informazione che potesse essere divisiva.
Inoltre, tenendo la popolazione all’oscuro di quanto stesse
avvenendo agli ebrei, era anche possibile giustificare la politica
di limitazione degli ingressi e di respingimento nei confronti dei
profughi che premevano a tutte le frontiere della Confederazione,
e bollare come esagerazioni non confermate le voci di persecuzioni
e massacri che comunque giravano.
Una pagina non proprio nobile fu anche scritta, in quegli anni, dalla
Croce Rossa il cui Comitato Internazionale aveva da sempre sede a
Ginevra ed era composto da cittadini svizzeri. Come ricorda Silvana
Calvo, «poiché la Croce Rossa, rappresentava agli occhi
del mondo l’istanza suprema in grado di difendere le vittime,
tutti colori che sapevano qualcosa del dramma che si stava consumando
sotto il Nazismo, trovavano naturale informare il CICR». La
Croce Rossa, dunque, ben sapeva che cosa stesse accadendo.
Ma anche qui prevalsero le prudenze e la determinazione a rifuggire
da qualsivoglia implicazione nel problema del genocidio degli ebrei.
Forti delle convenzioni internazionali, che prevedevano da parte della
CR la tutela dei soli prigionieri militari e civili detenuti in paese
nemico, i prigionieri interni, per motivi razziali e politici, erano
considerati un problema esclusivo dei singoli stati.
Nulla perciò, neppure i tragici rapporti di membri della stessa
CR, o delle rappresentanze nazionali, smosse il Comitato dalle proprie
posizioni di estremo riserbo e di rifiuto di ogni qualsivoglia intervento,
che non fosse l’invio di pacchi-viveri.
Addirittura, quando nel ’42 il palpabile disagio di vari membri
del Comitato fece nascere l’idea di un appello per il rispetto
dei diritti umani da sottoporre ai belligeranti, benché questo
fosse redatto in termini estremamente blandi e generici, ad esso non
fu dato corso, anche per le pressioni del Governo Federale. L’implicita
allusione alla situazione degli ebrei avrebbe potuto infatti irritare
la Germania, e risultare perciò in contrasto con gli indirizzi
di neutralità adottati dalla Svizzera.
Allorché, più avanti, alcune missioni mediche della
CR svizzera, inviate sul fronte russo e di fatto controllate dai tedeschi,
si apprestavano a rientrare, dopo aver assistito a inenarrabili atrocità,
i sanitari dovettero impegnarsi a serbare silenzio assoluto sulla
loro esperienza. Venivano al contempo diramate disposizioni preventive
di censura a tutti gli organi di informazione, affinché nulla
potesse in alcun modo trapelare.
A differenza dei bollettini radiofonici, alcuni giornali riuscirono
però a diffondere alcune informazioni aggiornate sulla persecuzione
degli ebrei, sfidando la censura e accettando il rischio di essere
colpiti da sanzioni. Molto dipendeva, na-turalmente, dall’orientamento
delle testate. In questo si distinsero fogli liberali e socialisti,
come il ticinese «Libera stam-pa», o periodici
confessionali, espressioni della Comunità ebraica e delle Chiese
cristiane. La loro diffusione era però limitata, e raggiungeva
un pubblico naturalmente selezionato. Sapeva, insomma, solo chi voleva
sapere.
Nell’archivio di Benjamin Sagalowitz, direttore dal 1938 e per
tutta la durata della guerra della agenzia di stampa ebraica JUNA,
sono conservati 800 ritagli di giornale, che rappresentano tutto ciò
che in Svizzera fu pubblicato nei riguardi della Shoà.
Accanto ad articoli che presentano le misure adottate dai tedeschi
e la sorte delle loro vittime, non mancano però anche scritti
che danno sfogo a un violento antisemitismo, che individua nelle attitudini
e nei comportamenti degli ebrei la mo-tivazione della ostilità
nei loro confronti, li addita come elemento causale della guerra in
corso, fiancheggiatori del bolscevismo, nemici attivi della Chiesa.
Curiosamente, come nota l’autrice, questi articoli si fecero
particolarmente virulenti proprio quando, allentatasi la censura nel
corso del ’44 (fu abolita nel 1945), sorse da più parti
un’ondata di solidarietà nei confronti degli ebrei. Proprio
questo, evidentemente, si voleva contrastare, anche per opporsi a
una più aperta politica di accoglienza.
Il venir meno del potere della censura quando ormai la disfatta della
Germania si delineava, consentì a molti giornali di esprimersi
finalmente in modo aperto sulla tragedia della Shoà, e di formulare
pensieri critici non solo sul popolo tedesco, che aveva consentito
e favorito un simile obbrobrio, ma anche sul colpevole silenzio del
mondo.
Scriveva Das Volk nel luglio del 1944: «Ora che si
sollevano i veli che una troppo paurosa censura non può più
imporre, il mondo scoprirà cosa sono capaci di fare uomini
non più legati al diritto. Capirà che i fatti di oggi
non sono l’inizio, ma la logica fine di uno sviluppo di fronte
al quale ha taciuto fino a quando è stato troppo tardi…
L’élite spirituale d’Europa, salvo qualche lodevole
eccezione, ha preferito agire timidamente quando invece era necessario
alzare decisamente e prepotentemente la voce».
Nel maggio del 1945 il National Zeitung punta direttamente
la sua attenzione sulle responsabilità della Svizzera. «
In quanti hanno percorso il nostro paese spiegandoci quanto bene stava
facendo il Nazionalsocialismo, mentre l’infor-mazione sulla
sua vera natura e sulle sofferenze da esso provocate era contrastata
e definita propaganda e istigazione»?
I giornalisti trovarono allora anche modo di esprimere il proprio
personale disagio per essere stati costretti al silenzio e la propria
vergogna per averlo consentito.
«Sin dall’inizio della guerra, è sempre stato insopportabile
il fatto che si sapesse, da buone e fidate fonti, che l’orrore
che si celava dietro l’espressione ‘soluzione finale del
problema ebraico in Europa’ significava lo sterminio sistematico
di milioni di ebrei, ...ma questi rapporti sono stati proibiti dalla
censura mediante un termine inventato per l’occasione, ‘favolette
dell’orrore’, e la loro diffusione è stata severamente
punita… Siamo sembrati tutti consenzienti, persino una istituzione
come la Croce Rossa Internazionale, che non voleva mettere in pericolo
le sue relazioni con certi governi responsabili. Se con ciò
è stato davvero evitato un male maggiore, non si sa. L’ottusa
inerzia verso questi avvenimenti è sembrata una agonia morale»
(Thurgauer Arbeiter Zeitung, 8 luglio 1944).
E aggiunge il Landschaftler in quegli stessi giorni: «Chi
tace, pur possedendo una voce in grado di farsi ascoltare, mette in
pericolo il futuro della convivenza umana e il futuro della civiltà.
Ci troviamo al limite estremo della neutralità».
Daniela Manini
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Recensione di Massimo Novelli al libro
Francesca Nobili Spada Nell’acquario di Angiporto Galleria
«Francesca
si tolse la vita il 31 marzo del 1961. Tre giorni prima, il 28 marzo,
aveva finito di scrivere il romanzo. Ritrovato nel dicembre del 2013
dalla figlia Viola Lapiccirella, adesso il testo di Francesca ha finito
di essere un dattiloscritto perduto. E sul "mistero napoletano"
della sua vita, sulla ferita aperta della morte, su cui indagò
Rea, si fa ancora un po’ di luce. [...] Il titolo, Nell’acquario
di Angiporto Galleria, riassume bene e simbolizza la storia autobiografica
che Francesca Nobili Spada, nata nel 1916, cominciò a scrivere
nel 1957. Lì, in quel classico luogo della città di
Napoli, c’era infatti la sede de "l’Unità";
e lì convogliarono, tra incontri e scontri, speranze e disincanti,
amori e disamori, un gruppo di giovani intellettuali e militanti comunisti
nel tempo della guerra fredda. Giovani come Francesca, come il marito
Renzo, come Rea, Gerardo Marotta, Guido Piegari; uomini e donne, insomma,
che volevano generosamente cambiare il mondo, ma che furono spesso
costretti dai casi della vita, e soprattutto dai burocrati del Pci
stalinista, a sacrificare i sogni alla ragione di Stato del Partito
e di Mosca. Furono sacrifici che ebbero qualche tragico epilogo: la
morte di Francesca, quella del matematico Renato Caciopppoli, che
si uccise nel 1959. Nel romanzo, la Nobili Spada raccontò se
stessa, gli amici e i nemici, tutta gente vera, reale, comunque, e
riconoscibile: dagli eretici come loro a Giorgo Amendola, Giorgio
Napolitano, Salvatore Cacciapuoti, Maurizio Valenzi. Lo fece però
"dopo avere mescolato i frammenti", come aveva detto a Rea,
di se stessa e degli altri.»
Massimo Novelli, «Il Mattino» 11 aprile 2018
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Recensione di Giorgio Fabre
alla nuova edizione ampliata del
libro
Michele Sarfatti Mussolini
contro gli ebrei
La lunga
rincorsa di Mussolini antisemita
Storia contemporanea. Nell’edizione ampliata del suo «Mussolini
contro gli ebrei», da Zamorani, Michele Sarfatti presenta diversi
nuovi «episodi». Già prima del ’38 però...
Giorgio Fabre
Da:
«Il Manifesto» Edizione del 08.10.2017
Nel maggio 1994 Michele Sarfatti pubblicava da Zamorani, editore specializzato
in storia della persecuzione antiebraica, la prima edizione di Mussolini
contro gli ebrei. Renzo De Felice era già malato, ma ancora
attivo e dirigeva la sua rivista, «Storia contemporanea».
E molto incisivo era lo stuolo dei suoi allievi, esponenti dell’establishment
accademico e collaboratori di vari giornali. Mussolini contro gli
ebrei metteva profondamente in crisi, soprattutto grazie alla precisione
e all’incontestabilità della documentazione, le tesi
dello storico del fascismo, in particolare la sua Storia degli ebrei.
Era una svolta in questo campo, anche di metodo. La reazione fu un
silenzio greve sul libro di tutta la potente scuola defeliciana. L’anno
dopo De Felice pubblicò il famoso Rosso e Nero (Baldini e Castoldi)
su Mussolini e il fascismo, ignorando del tutto questo libro. Si ricorda
solo, per converso, una recensione appunto dell’allora nemico
di De Felice, Nicola Tranfaglia, su Repubblica. Ma la vita del libro
di Sarfatti fu assai difficile.
Egli aveva ricostruito con estremo dettaglio – spesso avendo
recuperato carte autografe e lavorando sugli originali – tutte
le prese di posizione e le concrete azioni persecutorie del capo del
fascismo verso gli ebrei nel 1938: compresa l’elaborazione del
Manifesto della razza (l’attribuzione era praticamente una novità)
e la preparazione accurata delle leggi antisemite.
Dalla ricostruzione emergeva che il duce aveva condotto di persona
un lavoro di una complessità enorme e Sarfatti, passo passo,
lo aveva seguito – per quanto era stato possibile – nelle
sue varie fasi, con documenti originali e interpretazioni assai innovative.
È ovvio che a uno storico come De Felice, che aveva puntato
a dimostrare come nel 1938 Mussolini avesse «discriminato»
gli ebrei, più che «perseguitarli», una ricostruzione
del genere potesse dare fastidio. In un certo senso, Sarfatti agì
da «revisionista» nei confronti dello storico italiano
accreditato come il massimo esponente italico del revisionismo storiografico.
Se ne accorse George Mosse, che fino ad allora sul fascismo italiano
aveva seguito in tutto De Felice. Rapidamente (e morto De Felice nel
maggio 1996), Mosse fece uno scarto e nel ’97 dichiarò
che su antisemitismo e razzismo non dava retta «fino in fondo»
allo storico reatino e qualche anno dopo certificò che riteneva
Mussolini «un convinto razzista».
Oggi, a quasi un quarto di secolo dalla prima uscita, presso lo stesso
editore Sarfatti pubblica una nuova edizione ampliata di Mussolini
contro gli ebrei (Zamorani, euro 28,00), 217 pagine invece di 199
e con un corpo più piccolo, in cui aggiunge e illustra diversi
nuovi episodi dell’antisemitismo di Mussolini nel 1938: alcuni
recuperati e ridiscussi in base ai nuovi studi pubblicati nel frattempo,
altri ricostruiti in maniera inedita. Chiude il volume un capitolo
sul censimento degli ebrei dell’agosto ’38, che non contiene
novità rispetto al ’94.
Il risultato della seconda edizione è la dimostrazione –
ancor più forte di quanto si sapesse o si potesse intuire –
dell’impegno antisemita di Mussolini: che, come è noto,
era un lavoratore indefesso e veloce, ma fu davvero impressionante
per l’attenzione e la cura con cui predispose il terreno e poi
preparò le nuove leggi contro gli ebrei. Rispetto a vent’anni
fa, sappiamo ora che nel 1938 scrisse articoli (in forma anonima)
sulla campagna razzista; allertò con anticipo, un mese prima
del Manifesto, i ministeri che avrebbero dovuto agire; si preoccupò,
fin dal novembre 1937, di avvertire i nazisti della campagna antisemita
che si andava preparando in Italia. Si fece affiancare da alcuni «tecnici»,
i cui ruoli però sono ancora piuttosto opachi; e poi da qualche
politico; ma fu lui a ideare e a guidare tutta l’operazione,
con fermezza e talora perfino con estrema durezza: come oggi si vede
bene dal modo in cui trattò, perfino sbeffeggiandoli, papa
Pio XI e la Chiesa.
Viene da dire, quasi in automatico, che tutta questa operatività
non poteva essere nata come un fungo, tra la fine del ’37 e
quella del ’38. Mussolini agiva in maniera molto diversa da
Hitler: era metodico, aveva tempi lunghi di preparazione e di elaborazione,
più volte sperimentava e talvolta tornava sui suoi passi, come
fece anche nel 1938, quando – a febbraio – preparò
il dettaglio dell’azione razzista con cinque-sei mesi di anticipo.
Lo aveva fatto anche in altri campi: nel fondamentale e delicatissimo
terreno corporativo, che richiese anni di preparazione; o in quello
della censura dei libri. È plausibile, quindi, che la preparazione
sia stata molto più lunga, anche se magari non continuativa,
come del resto anche nel 1938.
In effetti, da altre ricerche è emersa una diversa interpretazione
del periodo che anticipò le leggi contro gli ebrei, una preparazione
che risale più indietro nel tempo rispetto al 1936-’38.
Sarfatti ne accenna, ma concentra la sua analisi sul periodo della
persecuzione «pubblica». Eppure è ormai ampiamente
documentato che eliminazioni specifiche di ebrei da vari posti di
responsabilità furono ordinate a partire dal 1933-’34:
accadde nei comuni, nelle province, nei sindacati, negli ospedali,
in qualche caso nelle università. Mussolini poté predisporre
con cura, ben soppesando e con altri stop and go prima del fatidico
1938, il terremoto che provocò con le leggi razziste. Non solo
ci pensò, ma eliminò. È una vicenda su cui continua
a emergere nuova documentazione, ma il quadro complessivo di questo
«prequel» è chiaro e ineludibile.
Eppure, anche con questi limiti, il libro di Michele Sarfatti continua
a restare un piccolo capolavoro della storiografia del Novecento,
in una materia difficile e ancora controversa come quella delle leggi
razziali. Oggi, questo campo storiografico è diventato un campo
di battaglia, soprattutto per le lotte e per le carriere accademiche,
e la qualità della ricerca è andata in caduta libera.
È naturale che quel libro sia ancora, per molti aspetti, un
modello.
Mussolini e gli ebrei: la via
italiana alla catastrofe (e quella “benevola” auto-assoluzione
collettiva)
di Claudio Vercelli
22
dicembre 2017 Libri
http://www.mosaico-cem.it/cultura-e-societa/libri/mussolini-gli-ebrei-la-via-italiana-alla-catastrofe-quella-benevola-auto-assoluzione-collettiva
Come
si arrivò alla Leggi razziali del 1938? Quale il tratto peculiare
dato dal dittatore alla persecuzione degli ebrei? Il Duce mise a punto
un “modello originale” di razzismo antiebraico? Sì,
risponde lo storico Michele Sarfatti in un saggio. Smentendo i luoghi
comuni sugli “italiani brava gente” e le false credenze:
non si trattò di fare un “regalo” all’alleato
nazista
Al ripetersi di una mitologia consolidata, quella per
cui l’apparato discriminatorio, e poi persecutorio, contro l’ebraismo
italiano e gli ebrei in Italia sarebbe stato il prodotto di un atto
di deferenza politica e di allineamento ideologico alla volontà
di Hitler, la risposta che deve essere data richiede l’analisi
fredda e obiettiva delle fonti documentarie. Da molti anni Michele
Sarfatti, già direttore del Centro di documentazione ebraica
contemporanea CDEC di Milano, dedica i suoi studi a identificare e
ad argomentare con dovizia i riscontri sulla volontà mussoliniana
e sull’impegno del regime per dare corpo a un organico razzismo
antiebraico nel nostro Paese. La nuova edizione di Mussolini contro
gli ebrei. Cronaca dell’elaborazione delle leggi del 1938 (Silvio
Zamorani editore, Torino 2017, pp. 221, euro 28,00), si presenta ai
lettori italiani, ventitré anni dopo la sua prima pubblicazione,
con un corredo di documenti e ulteriori riflessioni dell’autore
medesimo, che sostanziano ancora meglio il senso dell’oggetto
della ricerca, ossia la traiettoria dell’antisemitismo fascista.
Il lavoro di scavo sistematico, compiuto dallo studioso tra le fonti,
ci restituisce l’ampia intelaiatura che ne è parte, smentendo
incontrovertibilmente la fiera dei luoghi comuni su un fascismo che
sarebbe stato tendenzialmente a-razzista, almeno fino a quando la
guerra non si approssimò, nonché animato da un antiebraismo
recalcitrante. Il 1938, da questo punto di vista, segnò il
passaggio da «una complessa politica discriminatoria a una dura
politica persecutoria». Tuttavia, la filiera delle intenzioni
e poi delle decisioni si articolò in un arco di tempo e attraverso
una qualità del processo decisionale ben più corposi
di quanto un anno, pur decisivo, non possa ora dirci e consegnarci.
Poiché essa era, al medesimo tempo, un punto di arrivo e un
punto di partenza.
Punto di arrivo rispetto alla costruzione e alla diffusione del tema
della «questione razzista», in chiave antisemitica. Punto
di partenza per la sua traduzione in atti legislativi, ovvero in una
politica di Stato che era componente integrante della definizione
di una nuova identità italiana fondata sui processi discriminatori,
sulla vessatorietà amministrativa, sull’esclusione sociale
e, successivamente, sulla persecuzione delle esistenze di quegli italiani
che, invece, non erano più considerati tali.
Il campo d’indagine di Sarfatti rimane quello dell’identificazione
delle modalità e dei passaggi attraverso i quali Mussolini,
tra febbraio e novembre 1938, pervenne a impostare e poi a tradurre
in atti concreti la «persecuzione legislativa antiebraica».
La rilevanza e la fecondità di questo approccio deriva dalla
centralità di Mussolini all’interno degli equilibri tra
poteri fascisti ma anche dal tratto peculiare che il dittatore concorse
nel dare all’impianto legislativo in corso d’opera. L’autore
ha particolare cura nel distinguere alcuni elementi endogeni nel definirsi
del regime persecutorio, separando gli ambiti della convinzione (la
maturazione del pensiero antisemitico) e dell’enunciazione (la
formulazione pubblica del medesimo) da quello dell’azione, cioè
del complesso di atti e fatti che traducono l’una e l’altra
in una dimensione continuativa, informata ai principi della legge
oltreché della politica. Su quest’ultimo aspetto, quindi,
si sofferma con la sua ricerca. A ciò coniuga, ben consapevole
del peso che hanno assunto nel dibattito collettivo, il «preventivo
rifiuto» di tre percorsi interpretativi altrimenti assai comuni,
ossia lo «Shoah-centrismo», il «nazi-centrismo»
e il cliché che continua a consegnare agli italiani una patente
di sostanziale estraneità nei confronti del razzismo. Nessuno
dei tre, qualora decontestualizzati, ha infatti in sé un valore
esplicativo. La Shoah, se è storicamente la stazione terminale
dell’antisemitismo biologico e apocalittico, non è la
chiave per comprendere ciò che la precede. Quanto meno, non
può esserne l’elemento esclusivo, rischiando altrimenti
di appiattire la complessità e la varietà delle manifestazioni
antisemitiche, nei due decenni precedenti alla catastrofe, sulla base
degli effetti che se ne misurarono poi durante la guerra. La medesima
cosa può essere detta a corredo di quegli approcci che rimandano
alla Germania di Hitler come matrice esclusiva, o comunque prevalente,
dell’antiebraismo europeo, esentandosi dal ragionare sulla creazione
e il rafforzamento di “tradizioni del pregiudizio” nazionali,
a partire dalla stessa Italia, a volte destinate ad incontrarsi e
a ibridarsi con quella tedesca. Ovvero, a rafforzarla, influenzandone
quindi alcuni tratti.
L’attenzione esclusiva nei confronti dell’antisemitismo
hitleriano si incrocia semmai con il bisogno di rinnovare lo stereotipo
dell’inabilità nostrana ad assumere in proprio pratiche
discriminatorie, vessatorie e poi persecutorie della minoranza nazionale
ebraica. Fino a giungere ad una benevola autoassoluzione collettiva.
Benché la storiografia si sia posta nel corso del tempo quest’ordine
di problemi, la discussione pubblica è ben lontana dall’averli
accettati come elementi di un approccio critico, e analitico, nei
riguardi del passato collettivo. In Sarfatti non c’è
l’impellenza di rilevare i ritardi o le amnesie di coscienza
bensì il bisogno di argomentare su un’adeguata conoscenza.
Anche per questo la figura e il ruolo di Mussolini tornano ad essere
capitali, avendo egli concorso attivamente alla definizione della
natura del «problema ebraico» e, soprattutto, all’identificazione
degli strumenti legali per porvi rimedio. L’autonomia italiana,
quindi, ne emerge in maniera senz’altro incontrovertibile attraverso
l’indagine dell’intensa attività che tra l’inizio
e la fine del 1938 caratterizzò l’impegno del duce fascista,
il quale si dedicò «allo studio e all’elaborazione
di un’impostazione legislativa che fosse coerente con le caratteristiche
proprie del fascismo, dell’Italia, della loro collocazione internazionale.
Questo vero e proprio lavoro fu da lui condotto con attenzione, con
consapevolezza degli effetti sulla realtà delle norme via via
progettate, con piena autonomia e con ampie collaborazioni. Egli si
impegnò nella definizione di un modello originale di persecuzione
degli ebrei». La qual cosa rafforza la consapevolezza, a distanza
di settanta e più anni, della centralità dell’apparato
normativo varato nel 1938, e poi corroborato delle successive persecuzioni,
nel definire i tratti non solo degli esclusi ma anche dei caratteri
degli inclusi, ossia dei possessori di quel «sangue italiano»
che avrebbe dovuto dominare un nuovo ordine mediterraneo.
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Recensione di Titti Marrone al libro
Francesca Nobili Spada Nell’acquario di Angiporto Galleria
«A un certo punto
del racconto il personaggio di Laura, il più somigliante
a Francesca Spada, ricorda le "parole dello statuto del partito,
stampate sul retro delle tessere: “vita privata onesta, esemplare”.
Quattro parole che costruirono intorno a lei, comunista irregolare
guardata con sospetto dai compagni per il suo spirito libero oltre
che per il suo primo matrimonio con un fascista, la gabbia di pregiudizi
e diffidenze arrivata a farla sentire sempre più anomala
e sola, fino alla scelta del suicidio. Perché la sua vita
privata – e interiore – non risultava conforme ai dettami
prescritti da un partito dominato da quella che Ermanno Rea definì
“l’ossessione maschilista del comunismo napoletano”.
[...] Ora, con Nell’acquario di Angiporto Galleria arriva
quella che si può considerare un po’ la vendetta postuma
di Francesca. Si fa strada intessendo i fili delle vite dei giovani
uomini e delle giovani donne che nel dopoguerra animavano la redazione
napoletana dell’«Unità», il mitico quarto
piano frequentato tra gli altri da Annamaria Ortese, Raffaele La
Capria, Giorgio Napolitano, Gerardo Marotta e posto da Ermanno Rea
al centro di Mistero napoletano. [...]. Ma la storia, più
permeata dal valore della testimonianza che della prova letteraria,
fa affiorare soprattutto quel privato così fermamente irreggimentato
dal partito: i pettegolezzi, i tradimenti compiuti o solo sognati,
le coppie tenute insieme dalla disciplina di partito, i matrimoni
combinati dai funzionari, la deplorazione per unioni come quella
di Francesca e Renzo Lapiccirella, considerate non consone al modello
di rigore comunista perseguito.»
Titti Marrone,
«Il Mattino» 11 aprile 2018
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